Tra i privilegi di un premio Nobel non ci sono solo il ricco assegno e la fama. Un effetto collaterale per chi ottiene questo riconoscimento è che tutto quello che dice o scrive ha una grande risonanza. Una simile attenzione può essere usata in modi diversi. In genere chi riceve il premio cerca di dare più peso al suo lavoro. Angus Deaton, insignito nel 2015 del premio Nobel per l’economia per i suoi studi su consumo, povertà e benessere, ha fatto l’opposto: ha messo in guardia l’opinione pubblica dalla sua categoria. Il suo ultimo libro, Economics in America, è un piatto indigesto per molti economisti: molti non ne escono bene. L’autore, originario della Scozia ed emigrato nel 1983 negli Stati Uniti, non risparmia dure critiche ai colleghi. Ma condivide con loro il banco degli imputati. Anche lui in passato ha creduto in molti dei dogmi che oggi si sono rivelati illusori, scrive Deaton.

Riconoscere di aver sbagliato è un segno di grandezza. Ma per gli economisti citati nel libro per nome e cognome dev’essere una magra consolazione. A essere attaccato è soprattutto Lawrence Summers, l’ex capo economista della Banca mondiale, che ha ricoperto importanti cariche sotto le presidenze di Bill Clinton e Barack Obama. Negli anni novanta, insieme al segretario al tesoro Robert Rubin e al presidente della Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) Alan Greenspan, formava un potente trio che lasciò il segno ben oltre i confini degli Stati Uniti.

Summers, questo il rimprovero di Deaton, ha usato la sua intelligenza e la sua forza di persuasione per rimuovere gli ostacoli ai flussi di capitali speculativi e agli strumenti finanziari. Tutto questo avrebbe in seguito contribuito non solo alla crisi asiatica del 1997, ma anche al crollo finanziario del 2008. All’epoca tuttavia molti economisti, tra cui anche Deaton, erano convinti che si potessero rimuovere senza rischi i limiti alla crescita della finanza. La fiducia nella stabilità dell’economia era illimitata. È un buon esempio di come Deaton prenda di mira i cosiddetti “fondamentalisti del mercato”. Da parte sua lo scozzese si dichiara un keynesiano di vecchia scuola e sostenitore di uno stato piuttosto dirigista. Arrivato negli Stati Uniti, era infastidito dal modo in cui gli studiosi liberali dichiaravano che “il governo è un furto”. “Ero cresciuto in un paese in cui io, i miei genitori e i nostri amici vedevamo il governo come un amico nei momenti di necessità”.

L’origine scozzese e un’infanzia povera – il padre lavorava nelle miniere di carbone dello Yorkshire – hanno plasmato Deaton. Oggi accusa i suoi colleghi di aver dimenticato che l’economia classica si fonda sulla filosofia morale scozzese del settecento: “Non tutto può essere mercificato. La nostra categoria si è fatta guidare dall’idea che il denaro è tutto, e che tutto si possa misurare con il denaro. I filosofi non hanno mai pensato che il denaro sia l’unica unità di misura del bene”.

Deaton stana il cieco economismo, un chiodo fisso secondo cui l’efficienza coinciderebbe con il benessere e i soldi dei più ricchi filtrerebbero fino agli strati più bassi della società. Sottolinea la totale mancanza di senso di responsabilità: quando crolla un ponte o esplode un razzo spaziale, gli ingegneri devono risponderne. Quando invece il capitalismo statunitense – come oggi – è al servizio esclusivo di una ristretta élite, nessuno si chiede se gli economisti siano responsabili.

Apostoli della globalizzazione

Quello tracciato da Deaton è un inglorioso ritratto dei colleghi. Sarebbero apostoli di una globalizzazione che distrugge milioni di posti di lavoro, che sposta la ricchezza dal basso verso l’alto, che erode intere comunità e che spinge i lavoratori disorganizzati nelle braccia di Donald Trump. Le sue critiche colpiscono soprattutto gli Stati Uniti. Quando ancora lavorava a Cambridge, nel Regno Unito, la disuguaglianza era un tema importante. Negli Stati Uniti, e soprattutto a Chicago, di solito si negava la questione. Molti dei rimproveri ai colleghi sembrano esagerati, ma quando Deaton scrive che negli ultimi decenni la società statunitense è diventata “più cupa”, non lo fa per dispetto. Forse più di qualsiasi altro studioso ha misurato con esattezza l’impoverimento di vasti strati della popolazione statunitense. Il suo libro del 2020, Morti per disperazione e il futuro del capitalismo (Il Mulino 2021), scritto insieme alla moglie Anne Case, è un’impressionante testimonianza del declino della classe lavoratrice e del sogno americano.

È fuori di dubbio che la globalizzazione e l’automazione abbiano creato, accanto a dei vincitori, anche dei perdenti. L’argomento standard degli economisti in favore di una maggiore globalizzazione è però che i guadagni sono così alti che i perdenti possono essere compensati. Deaton non è d’accordo. Prima di tutto, non si tratta sempre di soldi, ma anche di status sociale. E poi la compensazione dei perdenti non avviene mai. Non solo per l’avversione nei confronti della regolamentazione dei mercati, ma anche perché chi incassa i profitti è convinto che gli spettino e non intende rinunciarci.

Anche questa critica è rivolta più agli Stati Uniti che all’Europa. La rete delle garanzie sociali in America è più lacunosa che nel vecchio continente, se non del tutto inesistente. Chi perde un lavoro negli Stati Uniti deve cavarsela da solo. Il consiglio “in stile Maria Antonietta” che molti economisti danno ai disoccupati, cioè trasferirsi in città dove ci sono più opportunità, è secondo Deaton poco utile. Anzitutto, in questi luoghi il costo della vita è spesso insostenibile. Inoltre la maggior parte dei posti di lavoro richiede qualcosa che chi è sfavorito dalla globalizzazione possiede raramente: una laurea.

Spesso gli economisti che si rifugiano volentieri nei loro modelli astratti sono accusati di vivere fuori dal mondo. Non vale però solo per quelli di destra. Deaton ammette che anche a sinistra ci si può sbagliare: “Se a destra non si vedono gli errori del mercato, a sinistra si possono trascurare quelli del governo”, scrive. Ma questa precisazione non cambia il fatto che Deaton lascia molto in ombra le colpe dello stato rispetto a quelle del mercato. Eppure gli esempi di fallimenti statali non mancherebbero, anche negli Stati Uniti. Per esempio il pacchetto di stimoli all’economia da vari miliardi di dollari voluto da Joe Biden nel 2021, che ha alimentato l’inflazione. Ci sono stati economisti che fin dall’inizio hanno messo in guardia dai suoi effetti, tra cui Larry Summers. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1534 di Internazionale, a pagina 107. Compra questo numero | Abbonati