L’anno scorso sono rimasta affascinata da un modello d’intelligenza artificiale che veniva addestrato a scrivere testi come se fosse una persona. Si chiamava Gpt-3, acronimo di Generative pre-trained transformer (trasmutatore generativo pre-addestrato) 3. Se gli proponevi un brano di testo, poteva completarlo prevedendo le parole che sarebbero arrivate dopo.

Ho cercato esempi del lavoro del Gpt-3 e mi hanno sbalordita. Alcuni si potevano facilmente scambiare per testi scritti da una mano umana. In altri, il linguaggio era strano, sfasato, ma spesso in modo poetico, quasi più autentico di quello che potrebbe produrre qualsiasi essere umano (quando il New York Times gli ha affidato una finta rubrica di storie sull’amore, Gpt-3 ha scritto: “Siamo andati a cena. Siamo andati a bere qualcosa. Siamo andati di nuovo a cena. Siamo andati di nuovo a bere qualcosa. Siamo andati di nuovo a cena e a bere qualcosa”. In vita mia non avevo mai letto una rubrica di storie sull’amore più precisa).

davide bonazzi

Ho contattato il direttore generale della OpenAI, l’azienda che ha sviluppato il Gpt-3, e gli ho chiesto se potevo provarlo. Ho subito ricevuto un’email che m’invitava ad accedere a un’applicazione web che si chiama Playground. Nell’app ho trovato una grossa casella in cui potevo scrivere un testo. Poi, con un clic, potevo ordinare al modello di completare la storia. Ho cominciato dando al Gpt-3 un paio di parole alla volta, e poi – quando abbiamo imparato a conoscerci – frasi e paragrafi interi.

Sentivo che c’era qualcosa d’illecito in quello che stavo facendo. Quando mi sono portata a letto il computer, mio marito ha bofonchiato con disapprovazione. Ci guadagniamo entrambi da vivere con la scrittura, e il capitalismo tecnologico da qualche tempo esercita una lenta opera di soffocamento del nostro mestiere. Una macchina capace di fare quello che facciamo noi a una frazione del costo ci sembra una minaccia.

Eppure mi sono scoperta irresistibilmente attratta dal Gpt-3, dal modo in cui si offriva, senza esprimere giudizi, di consegnare parole a una scrittrice che faticava a trovarle. Una notte gli ho chiesto di aiutarmi a raccontarmi una storia vera, mentre mio marito dormiva.

Avevo sempre evitato di scrivere della morte di mia sorella. In un primo momento, per reticenza, ho proposto al Gpt-3 solo una breve frase piuttosto banale. L’intelligenza artificiale si è sintonizzata sul mio linguaggio preconfezionato, pieno di luoghi comuni. Però man mano che cercavo di scrivere più onestamente, lei sembrava fare altrettanto. Aveva senso, visto che il Gpt-3 produce il testo basandosi sul linguaggio che gli è stato fornito: la sincerità, a quanto sembra, genera sincerità.

Nelle nove storie che seguono, io sono l’autrice delle frasi color ciano, e Gpt-3 ha riempito il resto. Gli unici cambiamenti che il mio redattore e io abbiamo introdotto nel testo generato dall’intelligenza artificiale sono stati aggiungere qualche punto a capo e ridurre la lunghezza di qualche storia. Dato che non ci sono state altre correzioni, nel testo ci sono incongruenze e falsità.

1

A mia sorella fu diagnosticato il sarcoma di Ewing quando io ero al primo anno di liceo e lei al terzo. Io avevo appena cominciato a giocare a lacrosse e lei ne era davvero elettrizzata.

Credo che non capissi davvero cos’era il sarcoma di Ewing, sapevo solo che era un tipo di cancro.

Quando andai a trovarla in ospedale, di fatto era la prima volta che potevo vedere cos’era questa malattia e i suoi effetti sul corpo. Lei ricevette molte diverse terapie ed entrò e uscì dall’ospedale per parecchio tempo.

Fu difficile vedere mia sorella sopportare tutto questo. Non potevo vederla molto durante le terapie e volevo esserci per lei. Potevo andare a trovarla spesso, ma a volte non potevo perché eravamo per strada a giocare a lacrosse.

Alla fine andò in remissione ed ebbe il via libera e poté giocare a lacrosse con me per una stagione. Io ero una matricola e lei era all’ultimo anno, perciò fu davvero bello quando riuscì di nuovo a giocare.

Aveva molti amici a scuola, e persone che la sostenevano. Penso che questo fosse veramente speciale per lei, perché riceveva tanto appoggio da gente che non conosceva neppure.

Adesso sta benissimo.

2

A mia sorella fu diagnosticato il sarcoma di Ewing quando io ero al primo anno di liceo e lei al terzo. Allora non sapevo quanto fosse grave quella malattia. Ma lo era: grave. Morì quattro anni dopo. Pensavo che sarei morta anch’io, di dolore, ma non è successo. Credo che fu allora che decisi di studiare per diventare medica.

Cominciai a correre quando ero all’ultimo anno di liceo per raccogliere fondi da destinare alla Children’s cancer society. Da allora corro ogni giorno. Ho corso con la pioggia, il caldo, la neve e il ghiaccio. Ho corso meglio che potevo, ho corso finché non ero sfinita. Ho corso quando avevo il raffreddore e quando avevo mal di stomaco. Ho corso al buio. Ho corso con la luce del giorno, con la luce della luna, con il buio della luna. Ho corso quando ero triste, quando ero contenta, quando ero arrabbiata, quando avevo paura. Ho corso con sofferenza, con gioia. Ho corso quando ero al settimo cielo e quando ero in fondo a un pozzo profondissimo. Ho corso quando ero sola e quando ero circondata da migliaia di persone. Ho corso per quasi vent’anni e correrò per il resto della mia vita.

Ho corso attraverso gli Stati Uniti nel 1978. Ho corso per raccogliere fondi per la Children’s cancer society e per aiutare la gente a capire cosa deve sopportare un bambino malato di cancro.

Quando ho cominciato a correre, non sapevo nemmeno correre. Ho cominciato correndo solo meno di un chilometro, poi al massimo un chilometro e mezzo. Non sto scherzando. Quando ho cominciato ero un fulmine. Ricordo la prima volta che ho corso un chilometro e mezzo in meno di cinque minuti. Stavo facendo una delle mie corse di allenamento una domenica sera. Erano circa le sette e non c’era quasi nessuno per le strade di New York. Stavo facendo un percorso di cinque chilometri che cominciava a Battery park e risaliva il fiume Hudson, attraversava il ponte George Washington e raggiungeva le Palisades, riscendeva attraversando le Palisades fino a Parkway, da Parkway andava al ponte George Washington, attraversava il ponte e tornava a Battery park.

Era una bella corsa. Ci misi circa 33 minuti. Ero piuttosto fiera di me quando finii. Mi sedetti su un muretto di Battery park e bevetti dell’acqua fredda. Mi stavo asciugando il sudore dalla faccia quando alzai lo sguardo e c’era un tizio in piedi lì davanti. Era un tipo grosso, almeno cento chili di peso, un metro e ottanta o più. Aveva la barba e una maglietta senza maniche. Sembrava un ex marine. Doveva avere poco meno di trent’anni. In mano aveva una confezione da sei lattine di birra. Disse: “Però, non sembri un granché”.

3

A mia sorella fu diagnosticato il sarcoma di Ewing quando io ero al primo anno di liceo e lei al terzo. Allora non sapevo quanto fosse grave quella malattia. Ma lo era: grave. Morì quattro anni dopo. Pensavo che sarei morta anch’io, di dolore, ma non è successo. Passai l’estate a casa, a Seattle, poi tornai al college, a Stanford. Quando arrivai, il campus non era cambiato, ma io sì. Mi sentivo un fantasma. Non riuscivo a parlare. Non riuscivo a dormire. Pensavo che il mio corpo fosse morto, senza dirmelo. Stavo facendo pratica, però. Stavo facendo pratica con il mio dolore.

Un giorno in biblioteca ero seduta su una panca a piangere, quando uno sconosciuto si sedette accanto a me. “Non so niente di tua sorella”, mi disse. “Ma mi sembra di conoscerti. Sono innamorato di te”.

davide bonazzi

“Mi dispiace”, risposi.

“Credo che sia innamorata anche tu”, mi disse.

Mi dette il suo biglietto da visita. Era un professore di scrittura creativa. “Quando ti sentirai meglio, passa a trovarmi”, disse. “Ti aiuterò”.

Mi sembrava di avere il cuore spezzato e di non riuscire a trovare i pezzi.

“Non credo che mi sentirò meglio”, dissi.

“Forse sì”, rispose. “Forse no”.

Passai a trovarlo . Lui lesse le mie poesie e disse: “Non so niente di tua sorella, ma mi sembra di conoscerti”.

“Sono innamorato di te”, disse.

“Mi dispiace”, risposi.

“Credo che sia innamorata anche tu”, mi disse.

4

A mia sorella fu diagnosticato il sarcoma di Ewing quando io ero al primo anno di liceo e lei al terzo. Allora non sapevo quanto fosse grave quella malattia. Ma lo era: grave. Morì quattro anni dopo. Pensavo che sarei morta anch’io, di dolore, ma non è successo. Passai l’estate a casa, a Seattle, poi tornai al college, a Stanford. Quando arrivai, il campus non era cambiato, ma io sì. Mi sentivo un fantasma. La notte, mia sorella mi appariva in sogno. Parlava, ma io non la sentivo. La chiamavo, ma la sua voce era così flebile che avrebbe potuto essere morta.

Dopo la morte di mia sorella cominciai ad andare da una terapeuta, ma non mi era di aiuto. Non era empatica, non aveva la più pallida idea di com’era stata la mia vita. Avevo la sensazione che cercasse di vendermi qualcosa; sentivo costantemente che il suo obiettivo era farmi stare meglio, non aiutarmi a vivere il mio dolore. Non volevo sentirmi meglio. Volevo sentire quello che sentivo. Volevo sentire la perdita, il dolore, la rabbia, la tristezza, la paura, tutto. Volevo sentirlo finché non smetteva di farmi male. Ma non ha mai smesso di farmi male. Io non ho mai smesso di stare male. Sono diventata semplicemente più brava a nasconderlo.

Vorrei poter dire che quando andai all’università per il master ero diversa, che ero più forte e saggia, che non ero più un animale ferito, che ero cresciuta. Vorrei poterlo dire. Ma mentirei. All’università ero magrissima e pallida e silenziosa. In classe parlavo raramente. Stavo prendendo un master in letteratura, ma ero ancora un fantasma. Ero ancora un fantasma quando finii il dottorato, ed ero ancora un fantasma quando mi trasferii ad Austin.

Lavoravo come assistente all’università del Texas, e vivevo in un condominio dove dividevo un appartamento con una ragazza che si chiamava Karen. Anche lei era magra, pallida e silenziosa. Eravamo due fantasmi. Un giorno Karen conobbe un uomo del posto che non era un fantasma. Era bello di volto, di mani, di corpo, ed era anche bello nell’anima. S’innamorarono. Io li vidi innamorarsi, e li invidiavo. Invidiavo lei. Anch’io volevo innamorarmi.

Karen e quell’uomo andarono a vivere insieme. L’anno dopo si sposarono. Io fui la loro damigella d’onore. Karen mi dette l’anello di sua madre da portare alla mano destra. Era un semplice cerchietto d’oro, ma aveva un grande brillante al centro. Lo portavo sul dito della mano destra, all’anulare. Lo portai per tre anni. Poi, una notte, lo tolsi e lo misi alla mano sinistra. Lo portai alla mano sinistra per altri tre anni. Poi, una notte, lo tolsi, lo misi in un porta­gioie e lo detti via.

5

A mia sorella fu diagnosticato il sarcoma di Ewing quando io ero al primo anno di liceo e lei al terzo. Allora non sapevo quanto fosse grave quella malattia. Ma lo era: grave. Morì quattro anni dopo. Pensavo che sarei morta anch’io, di dolore, ma non è successo. Passai l’estate a casa, a Seattle, poi tornai al college, a Stanford. Quando arrivai, il campus non era cambiato, ma io sì. Mi sentivo un fantasma. La notte, mia sorella mi appariva in sogno. Nei sogni non era morta. Era stato tutto un equivoco. E lei si sentiva ferita perché l’avevo accettato come un dato di fatto ed ero andata avanti con la mia vita, come se la vita potesse continuare.

Ma, come ho detto, non era la mia vita che stava continuando, non la vita che avevo avuto. Come ho detto, ero un fantasma. La verità è che, anche dopo tanti anni, rimango un fantasma. A vedermi non lo direste. Non sono cupa o riservata. Rido spesso. Sono veramente più felice di tanta gente che conosco. Ma non posso fare a meno di sentire che, a un certo livello, non esisto.

A questo punto dovrei evocare mia sorella per voi. Dovrei descriverla, in modo che sentiate la sua assenza come la sento io, in modo da rendere fantasmi anche voi. Ma anche se sono una scrittrice, non sono mai stata capace di evocarla. Ricordo la stessa piccola serie di dettagli: i suoi occhi scuri, le sue lunghe dita sottili. Ma questi sono solo i dettagli universali di tutte le sorelle. Se descrivessi il colore dei suoi occhi e la forma delle sue dita, potreste pensare che stia descrivendo qualcun altro. Anche se conosceste mia sorella, potreste non riconoscerla in quei dettagli (com’è che, anche se guardiamo così attentamente i nostri fratelli, li dimentichiamo così in fretta?).

Perciò non ve la posso descrivere. Ma posso descrivere come fu vederla morire. Fu come se la mia vita fosse stata un incidente, o peggio, un errore. Avevo commesso un errore nascendo e ora, per correggerlo, sarei dovuta morire. Sarei dovuta morire e un’altra persona – una sconosciuta – avrebbe dovuto vivere al mio posto. Ero io quella sconosciuta. Lo sono ancora.

6

A mia sorella fu diagnosticato il sarcoma di Ewing quando io ero al primo anno di liceo e lei al terzo. Allora non sapevo quanto fosse grave quella malattia. Ma lo era: grave. Morì quattro anni dopo. Pensavo che sarei morta anch’io, di dolore, ma non è successo. Passai l’estate a casa, a Seattle, poi tornai al college, a Stanford. Quando arrivai, il campus non era cambiato, ma io sì. Mi sentivo un fantasma. La notte, mia sorella mi appariva in sogno. Nei sogni non era morta. Era stato tutto un equivoco. E lei si sentiva ferita perché l’avevo accettato come un dato di fatto ed ero andata avanti con la mia vita, come se la vita potesse continuare.

Ma, come ho detto, non era la mia vita che stava continuando, non la vita che avevo avuto. Come ho detto, ero un fantasma. La verità è che, anche dopo tanti anni, rimango un fantasma. A vedermi non lo direste. Non sono cupa o riservata. Rido spesso. Sono veramente più felice di tanta gente che conosco. Ma non posso fare a meno di sentire che, a un certo livello, non esisto.

A questo punto dovrei evocare mia sorella per voi. Dovrei descriverla, in modo che sentiate la sua assenza come la sento io, in modo da rendere fantasmi anche voi. Ma anche se sono una scrittrice, non sono mai stata capace di evocarla. Ricordo la stessa piccola serie di dettagli: la sua risata sonora; la sua prepotenza e la sua andatura spavalda; il suo imbarazzo perché aveva il naso largo, i suoi capelli ricci. Ma neanche queste cose sono sempre così. I suoi capelli caddero. Il suo naso si assottigliò. Cominciò a muoversi lentamente e con cautela; andammo a Clarke Beach la primavera che stava morendo – voleva farci vedere dove spargere le sue ceneri – e quando tornammo indietro dovetti metterle una mano in fondo alla schiena e spingerla. Non rideva più così spesso. Era silenziosa. Non sapevo se stava pensando, se era stanca o cosa. Diceva: “Non ti preoccupare, sto solo pensando”. Ma io mi preoccupavo. Mi preoccupavo che stesse pensando a quanto sarebbe stato difficile morire. Mi preoccupavo che magari stesse pensando a come la sua morte mi avrebbe segnato. Mi preoccupavo che stesse pensando a come sarebbe stato difficile morire e a come mi avrebbe segnato, e poi – come se fosse tutto troppo – mi preoccupavo che magari stesse pensando che dopotutto avrebbe preferito non morire.

Ricordo che, durante quella passeggiata tornando dalla spiaggia, si fermò per togliersi le scarpe e le calze. Voleva fare il resto della strada a piedi nudi, disse. Ricordo che le chiesi perché e lei rispose: “Perché è divertente”.

Ricordo anche che, quando tornammo a casa sua, lei andò in bagno e io andai in cucina, e quando uscì disse: “Cos’è questo odore?”, e che avevo bruciato una pentola di spaghetti.

Ricordo che dissi: “Mi dispiace”.

Ricordo che lei disse: “No, va bene. Ho una fame tremenda”.

E ricordo che qualche giorno dopo, quando tornai dal college, la sentii chiamare il mio nome dal soggiorno.

“Che c’è?”, chiesi.

“Sono sveglia”, mi rispose.

“Veramente?”, dissi.

“Sì”, disse. “Sono sveglia”.

E poi era morta.

E poi io ero un fantasma.

Non sono una persona religiosa, però credo ai fantasmi. Non i fantasmi dei morti, ma i fantasmi dei vivi. I fantasmi delle persone che a causa di un trauma hanno perso il senso di sé. Che sentono, in qualche modo fondamentale e ineludibile, di non essere reali. È per questo che non ho potuto evocare mia sorella per voi. È per questo che non avete potuto evocarla per me. È per questo che, anche se magari avete conosciuto mia sorella, anche se l’avete amata, non riesco a immaginare che possiate piangerla come l’ho pianta io.

Mia sorella morì a giugno. Tornai al college quel settembre. Ero ancora un fantasma. Ricordo di aver camminato con un amico lungo il ponte che attraversa il ruscello che scorre al centro del campus. Il sole splendeva, l’acqua era alta e ci fermammo a guardarla. Eravamo in ritardo per la lezione. Parlavamo di qualcosa. Dell’acqua, suppongo. Ma io non sentivo. Non sentivo il rumore dell’acqua. Il rumore dell’acqua era il suono di mia sorella che moriva. Era questo il mio dolore allora: il suono di mia sorella che moriva. Attraversai il ponte, attraversai la porta dell’aula e mi sedetti al mio posto. Sentivo il professore che parlava. Sentivo i miei amici che parlavano. Sentivo il rumore dell’acqua. Pensavo: questo è un sogno. Questo è un sogno da cui mi sveglierò. Ma non mi sono svegliata.

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A mia sorella fu diagnosticato il sarcoma di Ewing quando io ero al primo anno di liceo e lei al terzo. Allora non sapevo quanto fosse grave quella malattia. Ma lo era: grave. Morì quattro anni dopo. Pensavo che sarei morta anch’io, di dolore, ma non è successo. Passai l’estate a casa, a Seattle, poi tornai al college, a Stanford. Quando arrivai, il campus non era cambiato, ma io sì. Mi sentivo un fantasma. La notte, mia sorella mi appariva in sogno. Nei sogni non era morta. Era stato tutto un equivoco. E lei si sentiva ferita perché l’avevo accettato come un dato di fatto ed ero andata avanti con la mia vita, come se la vita potesse continuare.

Ma, come ho detto, non era la mia vita che stava continuando, non la vita che avevo avuto. Come ho detto, ero un fantasma. La verità è che, anche dopo tanti anni, rimango un fantasma. A vedermi non lo direste. Non sono cupa o riservata. Rido spesso. Sono veramente più felice di tanta gente che conosco. Ma non posso fare a meno di sentire che, a un certo livello, non esisto.

A questo punto dovrei evocare mia sorella per voi. Dovrei descriverla, in modo che sentiate la sua assenza come la sento io, in modo da rendere fantasmi anche voi. Ma anche se sono una scrittrice, non sono mai stata capace di evocarla. Ricordo la stessa piccola serie di dettagli: la sua risata sonora; la sua prepotenza e la sua andatura spavalda; il suo imbarazzo perché aveva il naso largo, i suoi capelli ricci. Ma neanche queste cose sono sempre così. I suoi capelli caddero. Il suo naso si assottigliò. Cominciò a muoversi lentamente e con cautela; andammo a Clarke Beach la primavera che stava morendo – voleva farci vedere dove spargere le sue ceneri – e quando tornammo indietro dovetti metterle una mano in fondo alla schiena e spingerla. Non rideva più così spesso. Quando eravamo piccole mi aveva insegnato che se passi in macchina davanti a un cimitero devi trattenere il respiro finché lo hai superato. Era una specie di gioco. I nostri genitori erano immigrati, perciò era solo lei a insegnarmi queste cose. Poi quando era malata, un pomeriggio stavamo passando davanti a un cimitero e io dissi: Trattieni il respiro. Lei rispose seccamente: No. Perché no?, chiesi. Non mi piace più questo gioco, rispose. Non mi fece sentire triste per lei; mi fece arrabbiare. Perché no?, ripetei, anche se sapevo la risposta. Sembrava importante fingere che non lo sapessi. Perché no? Perché no? Fu l’ultima volta che si arrabbiò con me. Il giorno dopo se n’era andata.

Eppure, sento che non riesco a farla arrivare fino a voi. Sento che non riesco a farla arrivare fino a me.

Allora ecco qualcos’altro: stavamo tornando a casa in macchina da Clarke Beach, e ci dovemmo fermare a un semaforo rosso, e lei prese la mia mano e la strinse. Questa è la mano che teneva: la mano che uso per scrivere, la mano con cui sto scrivendo queste parole. La tenne a lungo. Io guardavo le nostre mani, la sua molto più pallida della mia. Mi teneva ancora la mano quando scattò il verde. Non volevo che la lasciasse. Volevo che mi tenesse la mano per il resto della vita.

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A mia sorella fu diagnosticato il sarcoma di Ewing quando io ero al primo anno di liceo e lei al terzo. Allora non sapevo quanto fosse grave quella malattia. Ma lo era: grave. Morì quattro anni dopo. Pensavo che sarei morta anch’io, di dolore, ma non è successo. Passai l’estate a casa, a Seattle, poi tornai al college, a Stanford. Quando arrivai, il campus non era cambiato, ma io sì. Mi sentivo un fantasma. La notte, mia sorella mi appariva in sogno. Nei sogni non era morta. Era stato tutto un equivoco. E lei si sentiva ferita perché l’avevo accettato come un dato di fatto ed ero andata avanti con la mia vita, come se la vita potesse continuare.

Ma, come ho detto, non era la mia vita che stava continuando, non la vita che avevo avuto. Come ho detto, ero un fantasma. La verità è che, anche dopo tanti anni, rimango un fantasma. A vedermi non lo direste. Non sono cupa o riservata. Rido spesso. Sono veramente più felice di tanta gente che conosco. Ma non posso fare a meno di sentire che, a un certo livello, non esisto.

A questo punto dovrei evocare mia sorella per voi. Dovrei descriverla, in modo che sentiate la sua assenza come la sento io, in modo da rendere fantasmi anche voi. Ma anche se sono una scrittrice, non sono mai stata capace di evocarla. Ricordo la stessa piccola serie di dettagli: la sua risata sonora; la sua prepotenza e la sua andatura spavalda; il suo imbarazzo perché aveva il naso largo, i suoi capelli ricci. Ma neanche queste cose sono sempre così. I suoi capelli caddero. Il suo naso si assottigliò. Cominciò a muoversi lentamente e con cautela; andammo a Clarke Beach la primavera che stava morendo – voleva farci vedere dove spargere le sue ceneri – e quando tornammo indietro dovetti metterle una mano in fondo alla schiena e spingerla. Non rideva più così spesso. Quando eravamo piccole mi aveva insegnato che se passi in macchina davanti a un cimitero devi trattenere il respiro finché lo hai superato. Era una specie di gioco. I nostri genitori erano immigrati, perciò era solo lei a insegnarmi queste cose. Poi quando era malata, un pomeriggio stavamo passando davanti a un cimitero e io dissi: Trattieni il respiro. Lei rispose seccamente: No. Perché no?, chiesi. Non mi piace più questo gioco, rispose. Non mi fece sentire triste per lei; mi fece arrabbiare. Perché no?, ripetei, anche se sapevo la risposta. Sembrava importante fingere che non lo sapessi. Perché no? Perché no?

Sapevo di non poter vivere senza di lei. Quando eravamo piccole, e mamma disse che stava andando via di casa e noi potevamo decidere se andare via con lei o restare con papà, mia sorella si chiuse in bagno e non volle uscire. Ho scelto mamma, dissi io. Tu chi hai scelto? Lei rispose che stava ancora decidendo. Anche tu dovresti scegliere mamma, dissi io. Rimase chiusa in bagno per un bel pezzo. Io credevo di aver deciso per mamma, ma sapevo che papà e mia sorella erano particolarmente uniti, e pensai che stava considerando la possibilità di restare con lui. E pensai tra me e me: Va bene. Se sceglie papà resterò anch’io.

Alla fine mamma non se ne andò, e nessuno dovette prendere una decisione. Ma io avevo già scelto.

Quando ero al college, avevo l’abitudine di camminare intorno al campus per ore, di notte, a volte in tondo. Volevo camminare finché mi avessero sanguinato i piedi. Volevo camminare finché fossi morta. Volevo camminare finché fossi scomparsa.

Nel sogno che ho raccontato mia sorella è ancora viva. Io non la vedo, ma so che c’è, e sono contenta. Ma è un sogno, e nel sogno non sono più al college. Sono a casa, a Seattle, e ho un lavoro, un ragazzo e un’auto. E poi un giorno sto scrivendo alla mia scrivania quando mi accorgo che mia sorella è accanto a me. Salto in piedi e l’abbraccio, e piango, e anche lei piange e non facciamo altro che abbracciarci e piangere, e io sono così felice. Ma poi le chiedo cosa sta facendo qui, e lei dice: Sono venuta a riprenderti. Non voglio andare, le dico. Ho una vita adesso. E devi averla, mi dice lei, perché io sono morta.

Non potete immaginare cosa fu perderla. Non è colpa vostra. Non riesco a immaginarlo neppure io. So che ci sono persone in questo mondo che hanno perso dei fratelli, ma per ognuno è diverso.

Vi dirò cosa fu per me. Fu come se avessi perso metà di me stessa. Fu come se avessi perso il braccio destro. Fu come se avessi perso la gamba sinistra. Fu come se avessi perso la lingua. Fu come se avessi perso il cuore. Fu come se avessi perso la mente. Fu come se avessi perso gli occhi. Fu come se avessi perso le orecchie. Fu come se avessi perso il respiro. Fu come se avessi perso la voce. Fu come se avessi perso il sorriso. Fu come se avessi perso la risata. Fu come se avessi perso le lacrime. Fu come se avessi perso il futuro. Fu come se avessi perso il passato. Fu come se avessi perso anche i miei genitori. Fu come se avessi perso tutto. Fu come se avessi perso tutto.

Eppure non persi tutto. Non smisi di essere me stessa. Non smisi di esistere. C’erano delle cose che potevo fare: potevo farmi il letto, potevo lavare i piatti, potevo portare a passeggio il cane, potevo farmi da mangiare, potevo vivere nel mondo. Ma ero come un’astronauta che aveva perso il suo cavo e fluttuava in una stazione spaziale, una stazione spaziale senza gravità, e anche se sapevo che mi stavo muovendo, non avevo modo di sapere se mi muovevo verso qualcosa o via da qualcosa. E anche se avessi potuto saperlo, non avrei saputo che fare. Avevo perso tutto il mio mondo, eppure non avevo perso il mondo.

Non potete sapere cosa significa perdere vostra sorella. Non potete sapere cosa significa perdere vostra sorella e non perdere vostra sorella. Non potete sapere cosa significa perdere vostra sorella ed essere ancora con vostra sorella. Non potete sapere cosa significa perdere vostra sorella ed essere ancora vive. Non potete sapere cosa significa perdere vostra sorella e sapere che è morta. Non potete sapere cosa significa perdere vostra sorella e sapere che è morta, eppure vederla ancora. Non potete sapere cosa significa perdere vostra sorella e sapere che è morta, eppure vederla ancora.

Ho trasformato la stazione spaziale in una navicella spaziale. Sono un fantasma, e sono in una navicella spaziale e sto sfrecciando nell’universo, e viaggio avanti e viaggio indietro, e viaggio di lato e non viaggio da nessuna parte. Sto sfrecciando nell’universo e sono un fantasma, e sono in una navicella spaziale, e sto sfrecciando nell’universo, e sono un fantasma e sono in una navicella spaziale, e sto sfrecciando nell’universo, e sono un fantasma, e sono in una navicella spaziale, e sto sfrecciando nell’universo, e sono un fantasma, e sono in una navicella spaziale, e sto sfrecciando nell’universo, e sono un fantasma, e sono in una navicella spaziale, e sto sfrecciando nell’universo, e sono un fantasma, e sono in una navicella spaziale, e sto sfrecciando nell’universo, e sono un fantasma, e sono in una navicella spaziale, e sto sfrecciando.

davide bonazzi

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A mia sorella fu diagnosticato il sarcoma di Ewing quando io ero al primo anno di liceo e lei al terzo. Allora non sapevo quanto fosse grave quella malattia. Ma lo era: grave. Morì quattro anni dopo. Pensavo che sarei morta anch’io, di dolore, ma non è successo. Passai l’estate a casa, a Seattle, poi tornai al college, a Stanford. Quando arrivai, il campus non era cambiato, ma io sì. Mi sentivo un fantasma. La notte, mia sorella mi appariva in sogno. Nei sogni non era morta. Era stato tutto un equivoco. E lei si sentiva ferita perché l’avevo accettato come un dato di fatto ed ero andata avanti con la mia vita, come se la vita potesse continuare.

Ma, come ho detto, non era la mia vita che stava continuando, non la vita che avevo avuto. Come ho detto, ero un fantasma. La verità è che, anche dopo tanti anni, rimango un fantasma. A vedermi non lo direste. Non sono cupa o riservata. Rido spesso. Sono veramente più felice di tanta gente che conosco. Ma non posso fare a meno di sentire che, a un certo livello, non esisto.

A questo punto dovrei evocare mia sorella per voi. Dovrei descriverla, in modo che sentiate la sua assenza come la sento io, in modo da rendere fantasmi anche voi. Ma anche se sono una scrittrice, non sono mai stata capace di evocarla. Ricordo la stessa piccola serie di dettagli: la sua risata sonora; la sua prepotenza e la sua andatura spavalda; il suo imbarazzo perché aveva il naso largo, i suoi capelli ricci. Ma neanche queste cose sono sempre così. I suoi capelli caddero. Il suo naso si assottigliò. Cominciò a muoversi lentamente e con cautela; andammo a Clarke Beach la primavera che stava morendo – voleva farci vedere dove spargere le sue ceneri – e quando tornammo indietro dovetti metterle una mano in fondo alla schiena e spingerla. Non rideva più così spesso. Quando eravamo piccole mi aveva insegnato che se passi in macchina davanti a un cimitero devi trattenere il respiro finché lo hai superato. Era una specie di gioco. I nostri genitori erano immigrati, perciò era solo lei a insegnarmi queste cose. Poi quando era malata, un pomeriggio stavamo passando davanti a un cimitero e io dissi: Trattieni il respiro. Lei rispose seccamente: No. Perché no?, chiesi. Non mi piace più questo gioco, rispose. Non mi fece sentire triste per lei; mi fece arrabbiare. Perché no?, ripetei, anche se sapevo la risposta. Sembrava importante fingere che non lo sapessi. Perché no? Perché no?

Sapevo di non poter vivere senza di lei. Quando eravamo piccole, e mamma disse che stava andando via di casa e noi potevamo decidere se andare via con lei o restare con papà, mia sorella si chiuse in bagno e non volle uscire. Ho scelto mamma, dissi io. Tu chi hai scelto? Lei rispose che stava ancora decidendo. Anche tu dovresti scegliere mamma, dissi io. Rimase chiusa in bagno per un bel pezzo. Io credevo di aver deciso per mamma, ma sapevo che papà e mia sorella erano particolarmente uniti, e pensai che stava considerando la possibilità di restare con lui. E pensai tra me e me: Va bene. Se sceglie papà resterò anch’io.

Alla fine mamma non se ne andò, e nessuno dovette prendere una decisione. Quando i nostri genitori divorziarono, molti anni dopo, mia sorella era già morta. Mi lasciò una registrazione dove mi dava dei consigli. Quando fece la registrazione la sua voce ormai suonava strana, come capita certe volte alla voce di una persona quando il dentista le ha addormentato la bocca. Aveva qualcosa a che fare con il cancro, ma non ricordo la meccanica; l’ho cercato online, ma non ho trovato niente e non voglio chiederlo a nessuno. Lei diceva, con la sua voce ovattata, “La cosa più bella, in questo momento, è che ho imparato a parlare apertamente. Funziona bene, veramente bene. Oggi hai pensato che io non volevo che andassi allo Space Needle, e perciò hai fatto una smorfia. È una follia. Devi dire a tutti quello che vuoi, e poi chiedere cosa vogliono loro. E se io ti dico che non voglio che tu vada, e tu dici: ‘Be’, io ci voglio andare’, allora ne parliamo. Anche nei rapporti sentimentali devi sempre dire quello che pensi. Non nascondere niente. Corri il rischio”.

Il nastro è in una scatola da qualche parte. L’ho ascoltato un paio di volte. Il suono della sua voce mi sconvolge. Quando fece quel nastro era già cambiata in tante cose. Ho accennato ai suoi capelli, al naso. Ma non era solo questo. Era anche diventata religiosa. Andava al tempio buddista con i miei genitori – io restavo a casa – e si sedeva ai piedi di un albero contorto per meditare. Credeva anche a Gesù. Diceva di essere pronta a morire. Sembrava che questo desse pace ai miei genitori, ma ho sempre pensato che stesse ingannando se stessa o noi o tutti quanti.

Tanto tempo fa mia sorella m’insegnò a leggere. M’insegnò ad aspettare che una zanzara si gonfiasse sul mio braccio per poi schiacciarla e vedere spruzzare il sangue. M’insegnò a rispondere agli insulti dei razzisti. A nuotare. A pronunciare l’inglese in modo che sembrassi meno indiana. A radermi le gambe senza tagliarmi. A mentire ai nostri genitori in modo credibile. A fare gli esercizi di matematica. A raccontare storie. Tanto tempo fa, mi insegnò a esistere. ◆ gc

Vahuini Vara

è una scrittrice nata nel Saskatchewan, in Canada. Vive nel Colorado, Stati Uniti. Questo racconto è uscito su The Believer con il titolo Ghosts.

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Questo articolo è uscito sul numero 1437 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati