In definitiva non sono altro che controlli di routine. Sul tavolo di un laboratorio di analisi alimentari in Germania, ci sono ventidue provette etichettate e numerate, che contengono campioni di acqua, latte, miele e zucchero. Per raccoglierli alcune persone hanno rischiato la vita. Un tecnico aggiunge dei solventi e li versa in fiale di vetro che poi inserisce in centrifughe in grado di raggiungere i 14mila giri al minuto. Poi scalda le fiale per vaporizzarne il contenuto, fino a ottenere un condensato da consegnare a un chimico che studierà le sostanze in un gas­cromatografo. “Sono curioso di vedere cosa salta fuori”, dice. Nella mezz’ora successiva il contenuto delle fiale è sparato nei sottilissimi tubi di uno spettrometro di massa e sottoposto a un bombardamento mirato di elettroni: in questo modo, misurazione dopo misurazione, il campione rivela le sostanze – in questo caso, i veleni – che lo compongono. Il chimico si appoggia allo schienale della sedia e preme un bottone. “Nell’attesa gradisce un caffè?”, mi chiede. Finito il caffè, i risultati del primo campione dovrebbero essere pronti.

Pressioni al culmine

Il ronzio delle apparecchiature accompagna la fase finale di un’inchiesta cominciata settimane prima nei campi della Nigeria, dov’è in corso uno dei maggiori drammi dell’umanità. Mai prima d’ora la terra fertile è stata tanto scarsa e tante le persone da sfamare. Per decenni la fame nel mondo era calata, ma dal 2014 al 2019 le persone denutrite sono aumentate di quasi sessanta milioni, raggiungendo i 690 milioni, cioè l’8,9 per cento degli abitanti del mondo. Secondo le stime delle Nazioni Unite, tra dieci anni potrebbero superare gli 840 milioni. In Africa e in molti paesi asiatici la crescita vertiginosa della popolazione rischia di consumare tutte le risorse. Questa pressione è al culmine in Nigeria, il più popoloso dei paesi africani. Si stima che tra dieci anni gli abitanti passeranno dai 200 milioni attuali a 260 milioni. Con enormi sforzi, il governo sta cercando di modernizzare l’agricoltura, confidando nell’aiuto di industrie chimiche come le tedesche Bayer e Basf.

Quest’inchiesta racconta una crisi globale e un grande affare. Parla del tentativo di sfamare il mondo e del rischio di avvelenarlo. Quest’inchiesta parla di pesticidi. Pesticida, dal latino pestis (flagello) unito al suffisso -cida (che uccide). Fitofarmaci. Tra il 1969 e il 2007 questi prodotti hanno permesso di raddoppiare la produzione globale di grano. Sostanze prodotte dagli esseri umani per togliere e dare la vita, penetrando nelle più piccole parti degli organismi vegetali e degli insetti. I ricercatori hanno studiato le molecole in modo che attacchino il sistema nervoso dei parassiti. Alcune sostanze servono a uccidere gli insetti che si nutrono di piante utili, altre a distruggere piante che utili non sono. Spesso neanche i ricercatori sanno bene come funzionano.

Preleviamo il primo campione nel marzo 2021 nello stato federale del Benue, il granaio della Nigeria. Per la precisione siamo a Oye-Obi, un paesino di settemila abitanti dalla vegetazione quasi tropicale, con piccoli campi ombreggiati da palme. La zona è percorsa da fiumi che durante la stagione delle piogge vanno in piena, isolandola per mesi dal resto del paese.

Per arrivare a Oye-Obi non ci sono strade, ma solo sentieri. John Ihiama, un contadino di 47 anni, è davanti alle tombe dei suoi figli, che ha sepolto pochi mesi fa dietro la sua capanna. Ha distrutto tutti gli oggetti che gli appartenevano o che potevano evocare il loro ricordo: vestiti, scarpe, foto. Altrimenti, spiega Ihiama, “non avrebbero potuto lasciare questo mondo”. Tra i vivi sarebbero rimaste parti delle loro anime, cariche d’invidia e rabbia verso chi li ha lasciati morire.

Sulla tomba del figlio maggiore, Salomon, morto a 25 anni, non c’è una lapide né una piccola recinzione, com’è tradizione nel villaggio. È passato solo un anno e la terra smossa si vede appena in mezzo alle orme di gallina e ai brandelli di vecchi sacchetti di plastica. Ihiama si sposta sul lato opposto della capanna. “Ecco Maggy”, dice. Aveva quindici anni ed è morta pochi giorni dopo Salomon. Anche la sua tomba non si distingue più dal resto del cortile. La terza figlia, Gloria, è sepolta all’ombra di un basso cespuglio. È morta a otto anni, due giorni dopo Maggy.

Lo stato non ha le risorse per controllare quali sostanze si usano e in che modo

Nel gennaio del 2020 tra la gente di Oye-Obi si era diffusa una malattia misteriosa. I figli di Ihiama sono stati i primi a morire. Nei successivi quattro mesi hanno perso la vita 273 abitanti del villaggio, in gran parte bambini e ragazzi. Per un po’ nessuno ha cercato di spiegare l’accaduto. In Nigeria le notizie da villaggi come Oye-Obi ci mettono molto a raggiungere il resto del paese. Solo due mesi dopo il governo ha inviato una commissione di esperti per capire se si trattasse di colera, di febbre gialla o di febbre di Lassa. Alla fine le malattie infettive sono state escluse. In via ufficiosa, i medici hanno ipotizzato che i decessi fossero dovuti all’altissima concentrazione di pesticidi nel fiume, l’unica fonte di acqua potabile.

A Oye-Obi c’è mezzo villaggio ad accoglierci. Una decina di uomini ci è venuta incontro in moto, perché gli ultimi venti chilometri non si possono percorrere in auto. Hanno portato i nostri bagagli oltre il fiume. Nel villaggio, alla luce di una lampada solare sistemata ai piedi del chief, il capo tradizionale, incontriamo i sopravvissuti .

“Nessuno osa più venire qui. Hanno paura”, spiega il capovillaggio, un uomo magro con i pantaloni sporchi per il lavoro nei campi e la maglietta strappata. “Le morti si sono fermate”, aggiunge, “ma temiamo che possano ricominciare”.

Noi abbiamo seguito alcune voci sui danni causati in Nigeria dalle sostanze chimiche impiegate nell’agricoltura, di cui si sa molto poco. Da dieci anni il governo ne promuove l’uso, mantenendo basse le tariffe doganali e facendo credito ad agricoltori e imprenditori. In campagna elettorale alcuni politici regalano camion carichi di pesticidi. Ma tutti sanno anche che lo stato non ha le risorse per controllare quali si usano e in che modo. Negli ultimi anni in diverse parti del paese sono avvenuti dei misteriosi avvelenamenti di massa, di cui in genere parlano solo i giornali locali. Di rado se ne chiariscono le cause.

Le responsabilità di Prince

La nostra guida a Oye-Obi è Prince Ogbaji, 24 anni, il figlio del capovillaggio, uno dei pochi ad aver studiato, tra l’altro proprio chimica, e l’unico a essere tornato al villaggio dopo gli studi. Prince cerca di darsi un tono, raccontandoci le sue idee per migliorare la vita nel villaggio e lamentandosi del fatto che tutti fanno affidamento su di lui, l’unico laureato. La maggior parte degli abitanti non sa leggere né scrivere. Sono tutti contadini, con campi di pochi ettari dove coltivano igname, manioca, riso, palma da olio e tabacco. Nel villaggio non ci sono telefoni né elettricità. L’unico generatore è nell’ambulatorio medico, ma spesso non c’è il carburante. Uomini e donne lavorano i campi con i picconi, bastoni grezzi sormontati da una lama di metallo forgiato a mano. A Oye-Obi gli unici segni di modernità sono i vestiti usati arrivati dall’Europa. E i pesticidi.

Nel buio della sua capanna, John Ihiama ci mostra lo spruzzatore che usa nei campi. “I miei vicini se ne servono ormai da qualche anno”, racconta. “Mi avevano detto che con i fitofarmaci il raccolto poteva raddoppiare”. Oggi anche lui li usa per le erbacce e le larve di nottue, le termiti, le mosche bianche e vari tipi di vermi. Lo spruzzatore è formato da una cisterna da venti litri fissata sulla schiena con una cinghia. È una specie di zaino che i contadini nigeriani chiamano “Jacto”, che in portoghese vuol dire “aereo a reazione”. Il nome gliel’ha dato l’azienda brasiliana che per prima ha portato i suoi prodotti in Nigeria. Jacto doveva essere sinonimo di progresso. A Oye-Obi quasi ogni contadino ne ha uno.

Sulle confezioni di pesticidi ci sono le istruzioni: per cosa usarli, quando e in che dosi. Ma Ihiama non sa leggere. Lui li compra da un commerciante di un villaggio vicino a Oye-Obi. Ormai i pesticidi in Nigeria si trovano ovunque, anche nei posti più isolati. I loro nomi trasformano i contadini in guerrieri: Dominator, Perfect killer, Terminator. Per lo più sono prodotti in India e in Cina, ma anche in Germania, il paese che li ha inventati.

Si dice che a Oye-Obi la morte sia arrivata da un’ansa sabbiosa del fiume Oyongo. Prince ce la mostra. Il sentiero che conduce al fiume è il più largo perché gli abitanti lo percorrono in ogni stagione per andare a prendere l’acqua o per portare gli animali ad abbeverarsi. “All’inizio sono morti gli animali”, racconta Prince. Poche settimane prima degli esseri umani, cani e capre hanno cominciato a soffrire di diarrea e avevano il pelo appiccicoso per il pus. Poi sono morti. “Ho perso sei delle dieci capre che avevo”, precisa Prince.

La commissione d’inchiesta nominata dall’amministrazione provinciale non ha mai pubblicato un rapporto né risponde alle domande. Per le autorità nigeriane, che hanno investito molte risorse per sviluppare l’agricoltura, gli incidenti con i pesticidi sono un tema delicato.

Gyawana, 19 marzo 2021. Vicino al villaggio c’è un canale dove finisce l’acqua contaminata dei campi Il pozzo pubblico di Gyawana, 17 marzo 2021 (Andy Spyra)

Al villaggio, Dennis Agaba è noto come il “dottore”. In realtà è un infermiere che ha frequentato un corso accelerato di formazione medica. “Dottore!”, grida Prince quando arriviamo all’ambulatorio dove lavora. Vorrebbe presentarcelo, ma Agaba è nei campi. Vive del raccolto, perché non riceve lo stipendio da sei anni. Prince ci mostra il centro di cura, uno dei pochi edifici di pietra: porte scardinate, finestre rotte, quattro stanze semivuote. L’infermiere arriva tutto sudato. Quando è avvenuta la tragedia, Agaba è stato l’unico a prendersi cura delle persone avvelenate, mentre i medici del villaggio vicino scappavano per la paura.

“Confidavo in Dio. Con il suo aiuto sono riuscito a curare alcuni malati. All’inizio avevano mal di testa, vertigini e febbre alta. Poi gli veniva la diarrea, e molto spesso gli si gonfiava la pancia. Avevano gli occhi gialli. Venivano da me in stampelle. In certi momenti avevo cinquanta pazienti stesi sul pavimento, non c’era posto. In ambulatorio sono morte 85 persone. Molte altre sono decedute a casa”.

Secondo Prince, la colpa è dei fitofarmaci. A monte del fiume non ci sono insediamenti che possano inquinare l’acqua. Prince parla di una combinazione di circostanze sfortunate: verso la fine della stagione secca, con il fiume ridotto a un rivolo d’acqua, i contadini hanno spruzzato nei campi grandi quantità di pesticidi. Poi sono arrivate piogge abbondanti, insolite per la stagione, e i pesticidi sono andati a finire nell’acqua stagnante del fiume.

A Oye-Obi preleviamo campioni di acqua fluviale, di cera di api selvatiche e di pesce di fiume essiccato.

Pochi giorni prima del nostro arrivo, vicino al villaggio è stato inaugurato un pozzo profondo ottanta metri. Un regalo del governo che, dopo la tragedia, voleva evitare che gli abitanti continuassero a bere l’acqua del fiume. Però le autorità non ne garantiscono la manutenzione. Pompa e serbatoio sono visibilmente di scarsa qualità e Prince teme che tra due anni saranno già da riparare. Senza i soldi per farlo, la gente tornerà a bere l’acqua del fiume.

Il villaggio di Gubi si trova nello stato federale di Bauchi, nel nord della Nigeria. Dalla savana spuntano speroni di roccia alti centinaia di metri. Una squadra di braccianti spruzza nei campi i pesticidi per conto di piccoli coltivatori. In tutto il paese ci sono decine di migliaia di persone che svolgono queste mansioni. Nella stagione secca la maggior parte dei terreni è ancora incolta. Alcuni sono irrigati con l’acqua di un fiume vicino. Il secondo campione lo preleviamo qui.

Una mattina presto tre uomini mettono in spalla gli zaini Jacto. Il gruppetto di braccianti è capitanato da Abdullah Adamu, 40 anni. Avanzano lenti a schiena china tra le piante di pomodori. Con il braccio sinistro azionano la leva della pompa. Lo alzano e lo abbassano con una cadenza quasi meccanica, per mantenere costante la pressione. Con il braccio destro dirigono l’erogatore verso le piante. Il gruppo di Adamu lavora a giornata per contadini che possiedono piccoli campi di pomodori, arance, cetrioli e mais. Spruzzano una fila nella direzione del vento e una controvento. Nell’aria c’è un odore acidulo. Per proteggersi indossano giacche a maniche lunghe e mascherine di stoffa leggera, che servono a evitare la nausea e la difficoltà a deglutire dopo pochi respiri. Adamu è l’unico con guanti di gomma e stivali: i più giovani lavorano a mani nude e in scarpe da ginnastica. La maggior parte non ha neanche la mascherina. “Odio questo lavoro”, dice Adamu, che dopo un incidente con lo spruzzatore è rimasto paralizzato per anni. Usando i denti per liberare un ugello otturato aveva ingoiato un po’ della sostanza. Ha ricominciato a camminare da poco.

Per giorni intervistiamo decine di operai agricoli. La maggior parte lamenta problemi di salute gravi, evidentemente dovuti ai pesticidi.

Il numero di avvelenamenti da pesticidi è in aumento in tutto il mondo. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2019 i contadini intossicati gravemente sono stati 385 milioni, la maggior parte in Asia e in Africa. Ogni anno nel mondo su 860 milioni di contadini quasi la metà ha un’intossicazione. Secondo Adamu la sostanza peggiore è un liquido viola scuro chiamato Butashi: è prodotto in India e in Europa non lo conosce nessuno. Ne preleviamo un campione per il laboratorio.

Intorno al villaggio ci sono 36mila ettari di campi coltivati. Presto diventeranno 50mila

Dare Godiya Ishaya, 40 anni, fa il medico nell’ospedale principale della città di Bauchi e presiede l’Associazione nigeriana dei giovani medici: “Spesso riceviamo pazienti che si sono alzati di notte per bere e per sbaglio hanno afferrato il contenitore dei pesticidi. C’è anche chi usa i vecchi contenitori per metterci l’acqua da bere. Conservano i fitofarmaci nelle stanze dove tengono anche l’acqua potabile. Per questo molti bambini finiscono avvelenati. Bere un sorso di questa roba è come ingerire dell’acido: brucia le mucose, corrode e lesiona i vasi sanguigni dell’intestino. Così viene la diarrea e si comincia a sputare sangue. Questo è il primo stadio. Poi manca il respiro. In seguito arrivano le fitte al cuore e la perdita di conoscenza. La prima fase può durare sei giorni, la seconda una settimana. Queste sostanze vanno vendute con delle limitazioni. Solo le grandi aziende agricole dovrebbero essere autorizzate a usarle, perché i piccoli coltivatori non lo sanno fare. L’impressione è che in questa zona i pesticidi siano anche all’origine dell’aumento dei casi di leucemia e di tumori ai linfonodi. Il governo non si rende conto del problema. I pesticidi sono il prossimo flagello che colpirà la Nigeria”.

Zucchero amaro

Nel villaggio di Gyawana, nello stato dell’Adamawa, nel nordest, vivono ventimila abitanti. La valle è piena di piantagioni di canna da zucchero. In questa zona si spruzzano più fitofarmaci che in ogni altra parte della Nigeria. Qui preleviamo il terzo campione.

Un uomo entra dalla porta barcollando. “Simon!”, lo saluta Richard Yanusa, che ha invitato l’amico a casa sua per farcelo incontrare. L’ospite gli va incontro e si siede vicino a lui, poi si mette a rimuginare in silenzio. “Viene dalla piantagione”, spiega Richard, come per scusarlo. Simon è uno dei suoi più vecchi amici ed è qui per parlarci del lavoro nei campi. Ma è ubriaco, come succede spesso. Ha 26 anni e un bel viso, dagli occhi dolci. A detta di Richard, tutte le donne gli correvano dietro. Poi è sprofondato nell’alcolismo e nella tossicodipendenza, come molti qui a Gyawana. Vicino c’è la piantagione di canna da zucchero della Savannah Sugar Company, la più grande fabbrica di zucchero africana.

A Gyawana è Richard ad accompagnarci in giro. Vuole rompere il silenzio che avvolge la questione. Per proteggerlo non usiamo il suo vero nome e cambiamo la sua storia. Stiamo a casa sua per giorni e non sempre ci sentiamo al sicuro. Ci spaventano i tanti tossicodipendenti che vediamo in giro. Alcuni stazionano in gruppo nelle piazze, altri si aggirano per i vicoli. “Per sopportare il lavoro nei campi devi prendere qualcosa”, spiega Richard, che ha lavorato a lungo la terra. Molti sono diventati dipendenti dal tramadolo, che elimina la sensazione di stanchezza, altri bevono birra o grappa distillata in casa. Secondo Richard c’è chi sviluppa una dipendenza così forte da non riuscire più a lavorare e quindi non può più permettersi neanche la droga meno costosa.

Il pozzo pubblico di Gyawana, 17 marzo 2021 (Andy Spyra)

Intorno al villaggio ci sono 36mila ettari di campi coltivati. Presto diventeranno 50mila. Negli ultimi decenni il consumo di zucchero in Nigeria è aumentato, e per il 95 per cento viene importato. Per risparmiare, il governo vorrebbe espandere la produzione locale. Lo stato nigeriano e il Commonwealth britannico fondarono la Savannah Sugar Company negli anni ottanta e nel tempo la piantagione ha inglobato sempre più terreni. Per soddisfare l’enorme domanda d’acqua (per produrre un chilo di zucchero di canna ne servono tra i 1.500 e i tremila litri) fu costruita la diga di Kiri, spostando interi villaggi e migliaia di abitanti. Al centro dell’area si vedono le ciminiere della fabbrica, mandata avanti da un centinaio di ingegneri indiani che vivono in un insediamento di villette un po’ defilato. Nella fabbrica lavorano anche degli ingegneri tedeschi. Da qualche anno il proprietario dello stabilimento è il nigeriano Aliko Dangote, l’imprenditore più ricco di tutta l’Africa. Il terreno è sorvegliato come una zona militare. Sulle strade d’ingresso sono appostati uomini in uniforme armati di kalashnikov, ma nessuno cerca di fermarci quando ci dirigiamo verso i campi.

Per due giorni seguiamo una squadra di operai della Savannah Sugar Company. “Forza! Sbrigatevi”, grida impaziente il caposquadra alla fila di dodici spruzzatori. Una volta anche lui era uno di loro. Stamattina si occupano del quadrante J2, sette ettari, poi toccherà al K2, otto ettari. Le piante sono giovani e non arrivano ancora alle caviglie. Per evitare che le erbacce le ricoprano e gli insetti le aggrediscano vanno spruzzati insetticidi e diserbanti. Su un lato del campo, un camion cisterna segue gli operai. Quattro persone mescolano i prodotti chimici per riempire gli Jacto. Versano l’acqua della cisterna in grandi botti blu e poi aggiungono due liquidi, uno bianco e uno più denso di color arancione.

A mezzogiorno le temperature raggiungono i 42 gradi. Pochi indossano le protezioni, anche se una volta all’anno la fabbrica gli fornisce giacca, maschere, occhiali, guanti e stivali di gomma. Fa troppo caldo per indossarli. Solo i più forti riescono a resistere più di un paio d’ore. Gli ultimi operai a presentarsi per il turno devono lavorare con degli Jacto difettosi: alcuni spruzzatori sembrano essere stati immersi nella sostanza arancione; i bocchettoni e le saldature laterali degli zaini perdono liquido; gli ugelli si otturano continuamente e gli operai sono costretti a liberarli da erba e foglie a mani nude. Per ore l’unico rumore che si sente è un sibilo sommesso e lo sciabordio del liquido nella cisterna. I braccianti lavorano in fretta e in silenzio. Finito il turno, tornano al villaggio e la maggior parte di loro prende il paracetamolo per il mal di testa ancora prima di andare a lavarsi.

All’inizio del 2021, dopo le proteste organizzate dai sindacati, la fabbrica di zucchero ha accordato agli operai addetti all’aspersione dei pesticidi un aumento di stipendio di 40 centesimi di euro. Ora guadagnano 2,80 euro al giorno. Lo stipendio medio mensile è di 77 euro.

Mentre gli operai raggiungono Gyawana a bordo di camion, gli incaricati della preparazione delle sostanze mettono in ordine l’attrezzatura per il giorno dopo. Lavano le botti a mani nude. L’acqua finisce nei canali d’irrigazione, e da lì nella falda acquifera, quindi nei pozzi del villaggio. Con la stessa acqua ci giocano i bambini, gli abitanti del villaggio fanno il bagno e le donne lavano i panni.

Operai irrorano i campi di pesticidi, Gyawana, 18 marzo 2021 (Andy Spyra)

Non ci sono statistiche sui morti e i malati a Gyawana e negli altri quattro villaggi intorno alla fabbrica di zucchero. I medici dell’ospedale principale di Numan, il capoluogo del distretto, parlano di un aumento dei casi di leucemia. Ma non sono disponibili dei dati perché non sono stati fatti studi sui danni che l’uso intensivo dei pesticidi ha provocato alla popolazione rurale nigeriana.

“So di molti lavoratori morti a causa dei fitofarmaci”, dice Godwin Bola Sungano, presidente dell’Associazione giovanile di Gyawana e capo del sindacato dei braccianti della Savannah. Negli ultimi dieci anni i morti per avvelenamento sarebbero almeno cinquanta. “Dopo aver lavorato quattro o cinque anni con i pesticidi, ti ammali. Se superi i dieci anni, sei morto”. Secondo Sungano, in alta stagione un migliaio dei ventimila abitanti della zona è impiegato in queste mansioni. Grazie agli sforzi del sindacato, oggi chi lavora con le sostanze chimiche è assegnato a un altro reparto dopo qualche anno. Questo sistema ha permesso di salvare molte vite.

Sungano promette di presentarci alcuni operai che si sono gravemente ammalati, ma non lo fa. Non ci risponde più al telefono. Un giorno incontriamo il suo vice: ammette che a Sungano è stato consigliato di non parlare più con noi.

Di notte a Gyawana l’aria ha un odore acidulo. Dai campi la puzza delle sostanze chimiche arriva al villaggio. Molti abitanti affermano che la vita non è poi così male. Si lamentano dei veleni, dell’acqua, dell’aria. Ma senza la piantagione sarebbe peggio. Prima, ricordano gli anziani, ognuno lavorava il proprio campo. A volte i raccolti erano buoni, a volte pessimi. Spesso non c’era da mangiare. Oggi nessuno soffre più la fame e, grazie alla chimica, il villaggio non dipende più dai capricci della natura. C’è l’elettricità e ci sono due scuole. Qualche anno fa i lavoratori della piantagione avevano scioperato e il villaggio era caduto in miseria. “Non vorrai mica che la fabbrica chiuda!”, dicono a Richard. E lui risponde: “Non dobbiamo neanche tollerare tutto”.

A Gyawana alcuni abitanti raccolgono di nascosto per noi dei campioni da portare in Germania: acqua dei canali, favi di api selvatiche e anche fitofarmaci, per sapere quali siano le sostanze con cui viene irrorata la terra.

Al sicuro, in un albergo lontano dal villaggio, incontriamo Suleman, 48 anni, operaio nella piantagione. Lavora nel reparto che dà i pesticidi alle squadre che devono spruzzarli. Ha paura. Non usiamo il suo vero nome e non scattiamo foto.

“All’inizio pensi che i pesticidi non ti facciano nulla, ma a un certo punto ti ammali. Io lavoro nei campi di canna da zucchero da trent’anni e ho cominciato con gli spruzzatori. Usavamo il Gramazol e il 2,4-D, un liquido bianco dall’odore insopportabile, peggio della carne marcia. Quando spruzzavamo il Gramazol ci veniva la diarrea e ogni giorno prendevamo dei farmaci per fermarla. Il Gramazol ha ucciso alcuni miei amici. Voglio dire i loro nomi: si chiamavano Ringo, Michael, Georg, Bartholomew. Sono morti di dissenteria. Alcuni si sono avvelenati masticando la canna da zucchero dopo averla irrorata di diserbante. Un amico invece è morto bevendo l’acqua del canale dove un’altra squadra aveva lavato le botti con i fitofarmaci. Il Gramazol è stato sostituito con il Paraquat, dal colore rosso-bruno e inodore. Dall’anno scorso c’è un prodotto nuovo, il Grazeline. E l’Msma. Ormai mescolo queste sostanze da dieci anni. Il mio compito è andarle a prendere nel laboratorio dove lavorano altri operai, che corrono più rischi perché travasano i liquidi dalle cisterne grandi a quelle più piccole. Ho visto morire tre di loro a causa di un incidente nel magazzino: si era rovesciata una botte e un anno dopo erano tutti morti. Molti operai che spruzzano queste sostanze muoiono dopo pochi anni, spesso per malattie del fegato. Ma nella maggior parte dei casi le cause di morte sono sconosciute. Nel villaggio molti sviluppano strane patologie”.

Dall’alto, la piantagione sembra un microchip. I campi trapezoidali puntano verso le vie d’accesso, dritte come frecce. Nei campi c’è un silenzio quasi assoluto: praticamente non ci sono insetti e gli uccelli sono pochissimi. Poco prima del raccolto si appiccano dei fuochi mirati nei campi, per risparmiare tempo durante il raccolto. Le fiamme bruciano le foglie delle piante di canna da zucchero e lasciano intatti gli steli.

La nostra ultima sera a Gyawana quaranta ettari di piante di canna da zucchero alte tre metri bruciano in un violento incendio. Si alza un vento caldo, il rumore è assordante e l’aria irrespirabile. Gli animali nei campi muoiono o sono catturati dagli abitanti del villaggio che li inseguono con i machete. Ne venderanno la carne. Il cielo è nascosto dalle nuvole di fumo. La mattina dopo il villaggio sarà coperto di cenere.

Si può dar da mangiare al mondo intero senza l’aiuto della chimica?

La Nigeria è un paese profanato.

Nei loro documenti interni le multinazionali chimiche tedesche Bayer e Basf la chiamano “blue ocean”, cioè un mercato dalle possibilità praticamente illimitate. Per molti anni le due aziende hanno evitato il paese perché temevano l’instabilità politica, ma dieci anni fa non hanno più resistito alle prospettive del suo mercato. Mentre in Europa la popolarità di questi prodotti cala e in alcune parti si pensa di vietarne l’uso, i produttori vanno alla ricerca di nuovi mercati. “Il prossimo affare in Nigeria saranno i fitofarmaci”, rivela un esperto di marketing nella nuova sede della Bayer a Lagos. Il boom petrolifero è agli sgoccioli, è il momento dell’agricoltura. In Nigeria i prodotti tedeschi occupano un posto marginale nel mercato dei pesticidi. L’85 per cento arriva da Cina e India. I prodotti della Bayer sono molto costosi. “Ma sono più efficaci”, ribatte il rappresentante dell’azienda, mostrando l’ultimo catalogo. “Vendiamo solo sostanze autorizzate anche in Europa”. Non è vero: alcuni princìpi attivi contenuti nei prodotti che la Bayer distribuisce in Nigeria sono vietati in Europa perché probabilmente patogeni.

Per esempio l’Unione vieta gli insetticidi a base di tiacloprid o beta-ciflutrina, perché sospetta siano cancerogeni, causino danni al sistema nervoso e turbino l’equilibrio ormonale umano. Però permette di produrre queste sostanze ed esportarle all’estero. È una logica assassina: quello che per gli europei è troppo pericoloso va bene per gli africani.

La Bayer non nega di vendere in Africa sostanze vietate in Europa, ma sottolinea che l’importazione è autorizzata dalle autorità nigeriane. Evita di dire che in Nigeria quattro diverse autorità hanno voce in capitolo e si ostacolano a vicenda. Ognuna pensa che autorizzare e controllare i pesticidi sia di sua competenza. A Lagos c’è l’Agenzia nazionale per il controllo dei farmaci e dei prodotti alimentari (Nafdac), che concede le autorizzazioni ma non ha sufficienti capacità di condurre analisi. Poi c’è il dipartimento pesticidi del ministero dell’ambiente di Abuja, che è coinvolto nell’iter per le autorizzazioni. C’è la Standards organisation of Nigeria, l’istituto per la standardizzazione. E poi c’è Miranda Amachree, che ad Abuja dirige il reparto ispezioni dell’Agenzia nazionale per l’applicazione di standard e normative ambientali (Nesrea).

Amachree, 60 anni, lavora in un ufficio open space con il pavimento coperto da pile di documenti. “I pesticidi sono la prima fonte d’inquinamento ambientale in Nigeria. Se ne parla pochissimo e si tende a minimizzare la questione che, però, ha effetti più ampi di quanto immaginiamo. Dobbiamo avere ben chiaro che queste sostanze uccidono: vietarle non basta, bisogna accertarsi che non siano usate. I pesticidi vietati entrano nel paese di contrabbando, in grandi quantità, e poi sono rimpacchettati in confezioni di prodotti legali. Oppure sono venduti sottobanco. Non ho le risorse per verificare la presenza di pesticidi nell’acqua potabile o negli alimenti. Solo ora stiamo cominciando ad analizzare le acque vicino ai grandi impianti industriali. Ai pesticidi non siamo ancora arrivati. Grandi stabilimenti come la Savannah Sugar Company hanno l’obbligo di inviarci un report ambientale ogni tre mesi, ma non possiamo verificare le affermazioni, al massimo riusciamo a controllarne la correttezza formale. Abbiamo bisogno di più sostegno politico e risorse”.

Da sapere
Pericoli conosciuti

◆ Secondo i dati più recenti pubblicati dalla Fao, nel 2019 l’uso di pesticidi nel mondo è rimasto stabile rispetto agli anni precedenti: 4,2 milioni di tonnellate, cioè 0,6 chili per abitante del pianeta. Nello stesso anno le tonnellate vendute sono state 5,6 milioni, per un giro d’affari di 35,5 miliardi di dollari. Negli ultimi dieci anni l’uso di pesticidi nel mondo è cresciuto di oltre il 50 per cento rispetto agli anni novanta, in Africa del 70 per cento. Nel continente si usa il 3 per cento dei pesticidi mondiali, ma le importazioni sono in rapida crescita.

◆ A luglio del 2021 in Francia l’Istituto nazionale di salute e ricerca medica (Inserm) ha pubblicato i risultati di uno studio durato due anni che ha preso in esame le ricerche scientifiche internazionali su pesticidi e malattie. Queste evidenziano un legame “forte” tra l’uso delle sostanze e il linfoma non Hodgkin, il morbo di Parkinson, il mieloma multiplo, il tumore alla prostata, la broncopneumopatia cronica ostruttiva, la bronchite cronica e vari tipi di problemi cognitivi. Le Monde


Presto Amachree andrà in pensione. Vorrebbe aprire una piccola fabbrica di concimi organici. Perché perfino in Nigeria le alternative alla chimica esistono, solo che politici e contadini non le conoscono. In Nigeria a praticare l’agricoltura biologica sono solo i contadini poveri o i membri delle élite che hanno studiato all’estero. Perfino nei programmi internazionali di sviluppo la maggior parte dei fondi per l’agricoltura è destinata ai pesticidi. Raramente si finanziano progetti alternativi. In India, un altro paese emergente, l’uso di prodotti chimici ha avuto conseguenze sanitarie così drammatiche che tre stati federali li hanno vietati. Ma si può dar da mangiare al mondo intero senza l’aiuto della chimica?

Povera gente

In Germania le analisi dei campioni richiedono alcuni giorni. Alla fine riceviamo la telefonata del chimico: “È sconvolgente”, dice, lui che solitamente usa un linguaggio sobrio. “Una cosa del genere non dovrebbe esistere. Povera gente!”.

Ecco i risultati.

  1. Bauchi. Butashi, il pesticida che affliggeva i piccoli coltivatori (principio attivo: butacloro) sospettato di essere cancerogeno. Il laboratorio, che analizza anche prodotti alimentari importati dall’estero, non conosceva questo principio attivo. Siccome gli strumenti con cui si effettuano le analisi sono in grado di identificare soltanto molecole conosciute, finora non riusciva a individuare il butacloro. Grazie ai campioni nigeriani ora può farlo.
  1. Oye-Obi. Niente da segnalare nell’acqua del fiume, forse perché nel periodo in cui abbiamo svolto la ricerca sono stati spruzzati pochi pesticidi. La cera di un favo d’api selvatiche invece è piena d’insetticida, l’imidacloprid, prodotto dalla Bayer, che in caso d’intossicazione acuta scatena dissenteria e vomito. Nell’Unione europea è vietato. Nel pesce essiccato riscontriamo valori elevatissimi di endosulfan, che in Germania è proibito dal 1991 e può provocare anomalie nello sviluppo del feto. È stato messo a punto dalla Bayer, che lo ha fabbricato fino al 2007. Da allora la produzione continua in India.
  1. Gyawana. Nella cera di un favo d’api selvatiche riscontriamo alti valori di diclorvos, un insetticida vietato nell’Unione. Ha effetti dannosi sulla riproduzione e probabilmente è cancerogeno. Inoltre riscontriamo alti valori di imidacloprid, tracce di atrazina, butacloro e pendimetalin. In un campione d’acqua prelevato da un pozzo privato non troviamo nulla di anomalo, mentre nell’acqua del canale che il villaggio usa per lavarsi e fare il bagno e che, attraverso la falda acquifera, alimenta i pozzi d’acqua usati da ventimila persone, riscontriamo alti valori di atrazina, un diserbante che è stato collegato ad aborti spontanei e diminuzione della fertilità, oltre a essere probabilmente cancerogeno. C’è anche l’erbicida 2,4-D, diventato famoso nella guerra in Vietnam come componente principale del defoliante Agente arancio. Il liquido denso e arancione che gli operai prelevano dalle botti per riempire i loro Jacto è proprio il 2,4-D, che è ancora autorizzato in Germania, anche se si sospetta che possa provocare la leucemia. Il campione d’acqua ne conteneva 460 microgrammi al litro, 4.600 volte il limite consentito in Europa.

Quando nel villaggio di Oye-Obi comincerà la stagione delle piogge, John Ihiama si metterà in spalla il vecchio Jacto, passerà davanti alle tombe dei suoi figli e irrorerà il campo con i veleni. Ha altri cinque figli a cui pensare: “Quest’anno mi serve un buon raccolto”. ◆ sk

Wolfgang Bauer è un giornalista tedesco, vincitore di molti premi per i suoi reportage. L’ultimo libro che ha pubblicato in Italia è Le ragazze rapite (La Nuova Frontiera 2017).

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Questo articolo è uscito sul numero 1435 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati