Visto da vicino, l’uomo che vorrebbe spaccare la Bosnia Erzegovina sembra un gigante: alto un metro e novanta, imponente, con una stretta di mano simile a una morsa. “Drago mi je”, piacere, dice Milorad Dodik, il rappresentante serbo della presidenza collegiale tripartita della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina. L’incontro con Dodik si svolge un giovedì pomeriggio a Banja Luka, sede del governo della Republika Srpska di Bosnia. Il parlamento dell’entità serba si appresta a votare una serie di provvedimenti che potrebbero portare alla secessione di questa parte dello stato, che occupa la metà del territorio della Bosnia: è grande all’incirca quanto la Sicilia e ha una popolazione di 1,2 milioni di persone, in maggioranza serbe.
Cosa spinge Dodik a soffiare sul fuoco in questo paese straziato dalla guerra degli anni novanta e devastato dalla povertà e dall’emigrazione? Chi è l’uomo che definisce “un aborto” lo stato che governa insieme al rappresentante dei bosniaci musulmani e a quello dei croati? È possibile che le azioni di Dodik, sospettato di corruzione, siano dettate dalla paura di perdere il potere alle elezioni del prossimo anno, con tutte le conseguenze, anche legali, del caso? “Nessun tribunale ha accuse da rivolgermi. Diffondere storie come questa sul mio conto è l’unica ragion d’essere dell’opposizione”, si difende il leader serbo-bosniaco. Poi dice che non vuol essere responsabile dello scoppio di un’altra guerra.
Dodik guarda fuori dalla finestra: il suo ufficio è al sedicesimo piano dell’edificio dove ha sede il governo, a Banja Luka. Più tardi, mentre ci serve acquavite fatta in casa in calici dal lungo stelo, l’uomo più potente dell’entità serba dichiara: “Non voglio credere che sia possibile un nuovo conflitto. E in ogni caso non saremo noi a scatenarlo. La battaglia che conduciamo per raggiungere i nostri obiettivi è politica”. Parole che non suonano troppo rassicuranti.
Molti si chiedono se alla Bosnia toccherà la stessa sorte della Jugoslavia, che si disintegrò in una serie di guerre cominciate nel 1991 e costate 130mila morti e milioni di profughi. Nonostante i tentativi di secessione di Dodik, la situazione non è così grave, ma è comunque preoccupante: gli accordi di Dayton, che nel 1995 sancirono la fine della guerra di Bosnia e codificarono le regole della coesistenza pacifica tra musulmani bosniaci, serbi e croati, oggi sono sotto attacco da più parti.
La Bosnia Erzegovina è un mosaico etnico-religioso, ma è soprattutto una costruzione politica molto complessa e delicata. Dalla fine della guerra è divisa in due “entità” di dimensioni più o meno uguali, la Republika Srpska e la Federazione croato-musulmana, a cui si aggiunge il distretto di Brčko, al confine con la Croazia. A governare il tutto, quando non sono boicottate da una delle tre componenti etnoreligiose, ci sono le istituzioni statali: la presidenza, il governo, la magistratura, le forze armate. Ci sono poi le costose strutture di livello regionale: i 180 ministri in carica in tutto il paese e i dieci cantoni in cui è divisa l’entità croato-musulmana, con le loro elefantiache amministrazioni.
Una modifica al codice
Il conflitto di oggi ha preso il via a luglio, quando Valentin Inzko, allora Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina, l’autorità istituita dalla comunità internazionale nel 1995 per monitorare il rispetto degli accordi di Dayton, ha imposto una modifica al codice penale per punire chi nega il genocidio di Srebrenica (dove nel 1995 più di ottomila uomini e ragazzi musulmani furono uccisi dai militari serbo-bosniaci) e i crimini di guerra nei conflitti degli anni novanta. Tra il 1992 e il 1996 gli incessanti bombardamenti delle truppe serbo-bosniache su Sarajevo fecero più di diecimila morti, tra cui 1.600 bambini. A quel punto, Dodik ha cominciato a boicottare le istituzioni dello stato, bloccandone il funzionamento. E dall’inizio di novembre sta cercando di far approvare dal parlamento di Banja Luka una legge che sancisca la costituzione di un esercito serbo-bosniaco. Una mossa potenzialmente esplosiva.
Dodik non fa nulla per nascondere le sue inclinazioni nazionaliste. Il 18 ottobre si è presentato nel suo ufficio nel palazzo presidenziale di Sarajevo con un suonatore di fisarmonica, che ha intrattenuto i presenti con melodie popolari serbe, tra abbondanti brindisi a base di rakja. Il tutto è stato filmato e poi diffuso sui social network.
Parlando di Dodik, il croato Željko Komšić, anch’egli membro della presidenza collegiale, afferma: “Questa follia continuerà finché quel signore non tornerà in sé e deciderà di farsi curare”. Komšić, però, dimentica di dire che il tentativo del serbo Dodik di minare le fondamenta della Bosnia Erzegovina è sostenuto anche dal più importante partito croato di Bosnia, l’Hdz-Unione democratica croata.
Munizioni, obici, lanciarazzi
Ma il vero responsabile delle tensioni attuali resta Dodik. Meddžida Kreso, l’ex presidente della corte suprema, lo definisce un moderno Caligola, alludendo all’imperatore romano che – si dice – nominò console il suo cavallo preferito, convinto di poter fare ciò che voleva. Secondo il leader dell’opposizione bosniaca, Elmedin Konaković, la situazione attuale è simile a quella del 1992, alla vigilia dello scoppio della guerra. Da un pezzo gira voce che la polizia dell’entità serba stia accumulando armi, compresi i lanciarazzi a spalla. Dal canto loro, neanche i musulmani bosniaci evitano il linguaggio incendiario. Il 17 ottobre Admir Atović, console della Bosnia Erzegovina a Francoforte, ha scritto su Twitter: “Munizioni a Konjic e Goražde, obici a Travnik, lanciarazzi anticarro a Hadžići”. Poi ha aggiunto che ci sono centomila bosniaci capaci di usare le armi e pronti a combattere.
Sui casermoni di Dobrinja, un sobborgo di Sarajevo, i fori di proiettile testimoniano che proprio qui si sono svolte le battaglie più sanguinose combattute in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale. E da qui passa la linea di demarcazione tra la Republika Srpska e la Federazione croato-musulmana. Da una parte e dall’altra gli stessi palazzi, gli stessi balconi con i gerani fioriti; solo i numeri civici sono diversi: di qua verdi, di là blu. L’ex caserma da cui partì l’assedio serbo di Sarajevo, durato quasi quattro anni, dista pochi minuti in auto. Ma l’Europa è preparata allo scoppio di un nuovo conflitto in questa regione così complicata? E c’è davvero il rischio di una guerra o si stratta solo dei soliti eccessi retorici?
Andiamo a porre queste domande a Camp Butmir, il quartier generale della missione Eufor in Bosnia Erzegovina, dove 600 soldati e soldate di 19 paesi dal 2004 vegliano sulla pace del paese. “Con la nostra missione siamo riusciti a guadagnare tempo per raggiungere soluzioni politiche durature”, afferma con grande diplomazia il generale di divisione austriaco Alexander Platzer, alla guida della missione. Seduto su un divano di pelle, sovrastato da un manifesto con il logo di Eufor disegnato su uno sfondo dai colori sgargianti, simile a un quadro di Andy Warhol, Platzer spiega che di recente le tensioni si sono acuite. Per il momento, però, nessuno parla di un conflitto armato. I due elicotteri in dotazione all’Eufor sono usati soprattutto per l’addestramento, e da queste parti l’ultima vera emergenza è stata una puntura di vespa che ha provocato uno choc allergico a un soldato. Ma ovviamente, aggiunge Platzer, non si può mai escludere che le cose precipitino. L’Eufor opera in Bosnia per conto del Consiglio di sicurezza dell’Onu e il 3 novembre il suo mandato è stato prolungato di un anno. Anche la Russia, considerata molto vicina ai serbi di Bosnia, ha votato a favore.
Controparte civile di Platzer, l’Alto rappresentante della comunità internazionale per la Bosnia oggi è il tedesco Christian Schmidt, in carica da agosto. Il suo ufficio di Sarajevo è vuoto, perché Schmidt è in missione in Francia e Belgio. Lo raggiungiamo al telefono in un albergo del Quai d’Orsay a Parigi per chiedergli come valuta la situazione nella regione. Anche mettendo da parte “l’aggressività retorica, che da queste parti è abbastanza comune”, spiega, “oggi ci sono motivi di seria preoccupazione”. Negli ultimi tempi sono successe cose, e sono state fatte affermazioni, che rischiano di avere conseguenze ben oltre i confini della Bosnia: “Gli accordi di pace vacillano”, afferma Schmidt. Poi dice di voler mettere nero su bianco che l’entità serba non può semplicemente staccarsi dalla Bosnia Erzegovina.
Schmidt non è solo un osservatore: ha la facoltà di intervenire politicamente. Perché, allora, non si decide a togliere a Dodik la carica di rappresentante serbo nella presidenza tripartita? Il motivo, spiega, è che le prerogative accordate all’Alto rappresentante “sono come un buon contratto, che finché va tutto bene resta nel cassetto”. Ai cosiddetti poteri di Bonn (stabiliti nel 1997 in un vertice nella città tedesca) si ricorre solo quando non ci sono più alternative.
La figura chiave della politica regionale è Aleksandar Vučić, il presidente della Serbia. Angela Merkel l’ha definito un’ancora di stabilità
La nomina di Schmidt non è stata semplice, e ha incontrato diverse resistenze, tra cui quella di Dodik, spalleggiato da Vladimir Putin. Dodik non ha nulla di personale contro Schmidt: vuole solo abolire la sua carica. L’Unione europea e gli Stati Uniti sono sempre meno interessati alla Bosnia, e il progetto russo di conquistare maggior spazio di manovra nella regione, anche sopprimendo l’ufficio dell’Alto rappresentante, appare quasi logico.
Qualche altra domanda per Dodik: è vero che giovani serbo-bosniaci sono addestrati nei campi militari russi e che nella Republika Srpska sono arrivati dei cosacchi russi? E perché prima di ogni tornata elettorale l’oligarca russo Konstantin Malofeev visita la Bosnia? Dodik stesso è stato ricevuto più volte da Putin al Cremlino. Questo pomeriggio è abbastanza loquace, ma alla nostra domanda si fa avaro di parole: “Sono solo voci”, dice.
La Bosnia era, ed è ancora, il nodo gordiano dell’Europa. Fu proprio a Sarajevo che un serbo, Gavrilo Princip, uccise l’erede al trono austriaco, l’arciduca Francesco Ferdinando, facendo scoppiare la prima guerra mondiale. È proprio qui che, nel 1992, le tensioni tra i diversi gruppi etnici della Jugoslavia sono degenerate nella carneficina più terribile avvenuta in Europa nel secondo dopoguerra. E probabilmente è sempre qui che si deciderà se in questo angolo d’Europa – dove ci sono ancora sei stati che non sembrano avere reali prospettive d’ingresso nell’Unione europea – la pace durerà a lungo.
La figura chiave della politica regionale è Aleksandar Vučić, il presidente della Serbia, paese che ha sette milioni di abitanti e la cui capitale, Belgrado, dista quattr’ore di auto da Banja Luka. La cancelliera tedesca Angela Merkel l’ha definito un’ancora di stabilità. E in effetti, nelle aree dei Balcani popolate da serbi, Vučić è abile nell’attizzare con discrezione i conflitti per dare poi l’impressione di risolverli. Inoltre, approfitta della mancanza di coerenza e affidabilità dell’Unione europea, che alla vigilia del vertice del 6 ottobre con i paesi dei Balcani occidentali non aveva ancora trovato un accordo sulle candidature degli stati della regione per entrare nell’Unione.
◆ Le tensioni separatiste nella Republika Srpska potrebbero far precipitare la situazione in Bosnia Erzegovina. Lo ha dichiarato Christian Schmidt, l’Alto rappresentante della comunità internazionale in Bosnia, nel suo ultimo rapporto. “La Bosnia Erzegovina deve affrontare una delle maggiori minacce alla sua esistenza dalla fine della guerra”, ha scritto il diplomatico tedesco. E poi ha aggiunto che se la comunità internazionale dovesse ancora tollerare la situazione, la Republika Srpska “uscirebbe dall’assetto costituzionale della Bosnia”, violando gli accordi di Dayton. Per questo il 3 novembre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità il prolungamento dell’Eufor, la missione militare dell’Unione europea in Bosnia Erzegovina, per altri dodici mesi. Frankfurter Allgemeine Zeitung
In questa situazione, è poco probabile che la Serbia o la Russia, sua tradizionale alleata, siano seriamente interessate alla nascita di una Republika Srpska indipendente. Ma la retorica incendiaria di Dodik serve a Mosca e Belgrado per accreditarsi, nei negoziati con Bruxelles o Washington, come forze di stabilità, essenziali per mantenere la pace. Secondo l’esperto di Balcani Janusz Bugajski, della Jamestown foundation di Washington, in Bosnia è del tutto possibile un aumento della violenza, ma la maggioranza del paese spera nella vittoria della ragione. Ai primi di ottobre a Banja Luka migliaia di persone hanno manifestato contro Dodik, accusandolo di corruzione. E anche a Sarajevo la maggior parte dei cittadini non sembra dare ascolto a chi cerca il conflitto.
Carri armati
Tra le persone che vogliono la pace c’è Edin Forto, che incontriamo un martedì mattina mentre la capitale è avvolta dalla nebbia e la calma regna ancora intorno alla sede della presidenza, dove Dodik ha appena organizzato la sua festa a base di rakja e canzoni nazionaliste. L’ufficio di Forto, primo ministro del cantone di Sarajevo, è proprio accanto. Nel corridoio c’è una mappa che mostra Sarajevo circondata dai carri armati. Forto, che sogna un futuro libero da nazionalismi, vive circondato dalla storia. È tornato in Bosnia dopo essere vissuto negli Stati Uniti e ha scelto di non dichiararsi appartenente a nessun gruppo etnico: né serbo, né croato né musulmano bosniaco. Chi, come lui, spunta la casella ostali (altro) sul modulo in cui si deve dichiarare la propria origine etnica per partecipare alle elezioni, non può essere eletto alla presidenza della repubblica. Quello che sembra un semplice aneddoto è in realtà la dimostrazione che l’intero sistema politico è basato sul nazionalismo etnico. Forto spiega che nel suo cantone vuole abolire le quote etniche e combattere la corruzione.
Tuttavia anche lui è molto preoccupato dagli ultimi sviluppi: “Dodik ha sempre giocato la carta della secessione per vincere le elezioni, ma questa volta potrebbe davvero fare sul serio”. A quanto pare Dodik non vede altri argomenti per conservare il potere: “È la sua ultima partita”, commenta Forto, che però non crede alla possibilità di una guerra imminente: “Dodik è un po’ matto, ma non è stupido. Non ci porterà in casa i soldati russi. E di soldati serbo-bosniaci non ne ha molti…”. Dal canto suo, alla fine dell’incontro il leader della Republika Srpska dichiara che, finché resterà in carica, non permetterà a nessuno di togliere ai serbi la facoltà di decidere del loro destino. “Le scelte irresponsabili compiute da alcuni stranieri senza legittimazione elettorale per creare lo stato musulmano di Bosnia Erzegovina” incontreranno una netta resistenza, conclude Dodik. ◆ ma
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Questo articolo è uscito sul numero 1435 di Internazionale, a pagina 67. Compra questo numero | Abbonati