02 gennaio 2015 17:12

In Italia viene naturale pensare che tutto sia bizantino, occulto, mascherato. Non c’è mossa politica, azione sociale o giudizio culturale in cui non venga evocato un motivo nascosto, fino al livello più banale. Se la scrittrice Elena Ferrante è lodata a New York e a Londra, se è citata in tutti le liste dei “libri dell’anno”, per gli italiani è evidente che la fortunata autrice non può essere quel che sembra: una scrittrice napoletana di una certa età che non ama le luci della ribalta. Ci dev’essere un trucco, una congiura, un burattinaio dietro le quinte.

Dall’altra parte dell’Atlantico le cose sono diverse. All’America liberal non piacciono l’occulto, le teorie del complotto, la dietrologia. Là, dove la guerra fredda e la prosperità sbilenca reaganiana hanno a lungo consolidato un pensiero unico capitalista, l’intellighenzia non è mai stata tenera con i complottisti. Non ci sono altri universi, siate seri! Al diavolo Noam Chomsky, Barbara Ehrenreich, Michael Moore! Tutto quello che succede si può benissimo capire senza ricorrere a “grandi vecchi” o manovre segrete.

In Italia invece la stessa guerra fredda e i lunghi anni di governo democristiano hanno abituato gli italiani a un sano scetticismo. Niente è quel che sembra. L’Italia è il paese dei misteri (alcuni risolti dai magistrati, altri no). Piazza Fontana. Le operazioni stay-behind. La trattativa tra stato e mafia. L’extraordinary rendition di Abu Omar.

Quando niente è quel che sembra, però, come si fa a distinguere il dubbio legittimo dal mito del grande enigma diabolico? Quando il complottismo diventa forma mentis, la paranoia di massa non è molto lontana. Ecco, oggi la paranoia abbonda: dalla fobia per l’euro al timore delle vaccinazioni; dall’ostilità verso gli immigrati alla paura dell’anticristo musulmano.

Non va molto meglio negli Stati Uniti, a dire la verità. Se una parte dell’intellighenzia conserva una fede commovente in un mondo lineare, trasparentissimo, l’America è anche il serbatoio di ogni idea complottista, ogni speranza millenaria. Barack Obama non è americano. Gli alieni sono tra noi. Il pianeta ha solo seimila anni ed è stato creato da dio. Abbasso l’evoluzione, eccetera.

Tra un legnoso pensiero unico convinto gli Stati Uniti sono sempre dalla parte del giusto e la paranoia non c’è forse una via di mezzo? In un recente discorso per un premio letterario, la scrittrice Ursula LeGuin ha parlato, tra l’altro, del fatto che l’editoria stessa è devota al profitto, anche se “il profitto è spesso il nemico dell’arte. Oggi viviamo nel capitalismo e il suo potere ci pare inevitabile, ma era così anche quando i re rivendicavano un diritto divino. Gli esseri umani possono contrastare e trasformare ogni potere umano”.

Ma torniamo a Elena Ferrante. L’americano o l’inglese che apprezzano i suoi romanzi trovano spiacevole lo scetticismo italiano sulla paternità o maternità di questi testi. Come, un’autrice italiana così brava deve essere in realtà un uomo? Ma per carità!

Non vorrei entrare nel merito della questione. Ma in questo caso credo che un pizzico di sano scetticismo non guasterebbe. Il problema dei libri di Ferrante non è che sono così brillanti che solo un uomo potrebbe averli scritti. Più banalmente, sono libri che sembrano creati a tavolino per agganciare i lettori e le lettrici stranieri.

Elena Ferrante è una geniale iniziativa commerciale, dal successo sbalorditivo. Una firma forse prestata da una scrittrice in carne e ossa (cioè quella di L’amore molesto, pubblicato nel lontano 1992 e stilisticamente diverso dalla tetralogia L’amica geniale). Romanzi non troppo difficili per chi sa relativamente poco dell’Italia ma nutre una certa curiosità verso questo paese. Un genere letterario piacevole come un noir svedese: il romanzo rosa del ventunesimo secolo, senza pudore sessuale e con una spolverata di cultura. Un ambiente vivido, perfetto per una serie tv: la Napoli dei ceti sociali bassi e criminali, vagamente familiare a chi conosce la diaspora italiana e ama I Soprano. Uno stile senza infamia e senza lode. Il mistero della firma che alimenta la fama e convince della sua serietà.

Ma se piace, qual è il problema? Solo questo: cosa significa per la reputazione intellettuale dell’Italia se all’estero i critici più competenti sono rapiti da un evidente prodotto commerciale? A parte la lodevole mancanza di fantasia complottista, hanno forse un’idea stereotipata dell’Italia e nient’altro? Una sorta di paese giullare, messo a disposizione per il divertimento altrui, ma di poco peso?

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