05 maggio 2018 09:45

All’età di 11 anni Madeleine Albright si era già trovata due volte nella condizione di rifugiata: la prima volta in fuga dal nazismo, la seconda in fuga dal comunismo nella sua natia Cecoslovacchia. Alla fine la sua famiglia è riuscita a trasferirsi negli Stati Uniti, dove Madeleine Albright è diventata ambasciatrice alle Nazioni Unite, ministra degli esteri di Bill Clinton e professoressa all’università di Georgetown.

Un percorso personale e politico che spiega come mai, arrivata alla soglia degli 80 anni, Albright abbia deciso di pubblicare un libro il cui titolo è composto da una parola sconvolgente in lettere rosse su sfondo nero, “Fascismo”, e da un sottotitolo altrettanto inquietante: “Un avvertimento”.

Madeleine Albright è tutto tranne che una persona sconsiderata. Appartiene piuttosto all’establishment della costa orientale degli Stati Uniti, più abituato all’analisi che all’invettiva. È dunque con una certa sorpresa che abbiamo ricevuto il suo “avvertimento” in un libro in cui passa da Mussolini e Hitler nella prima metà del ventesimo secolo a… Donald Trump.

Infanzia e accademia
Trump è in effetti l’oggetto primario dell’opera di Albright, inizialmente destinata agli studiosi americani e che passa in rassegna l’insieme di leader autoritari, anti-democratici o apertamente fascisti apparsi nel nostro pianeta nel ventesimo e ventunesimo secolo. Albright ricorre ai suoi ricordi d’infanzia, alla sua esperienza di negoziatrice di primo piano (con il leader nordcoreano Kim Jong-il a proposito del nucleare, ma anche con il nazionalista serbo Slobodan Milosevic) e all’approccio accademico derivato dal suo ruolo di professoressa in relazioni internazionali.

Nel libro, Donald Trump compare dopo molte pagine, una volta che l’autrice ha scomposto i codici, i metodi e le competenze di leader estremamente diversi come l’ungherese Viktor Orbán, il venezuelano Hugo Chávez, il russo Vladimir Putin, il filippino Rodrigo Duterte, il cinese Xi Jinping e il turco Recep Tayyip Erdoğan.

Il 45º presidente degli Stati Uniti sarebbe dunque da inserire nella stessa categoria degli apprendisti autocrati se non addirittura in quella dei veri e propri dittatori? Albright non dice esattamente questo, ma inserisce la vittoria di Trump, il suo comportamento istintivo, il suo entourage e le sue dichiarazioni nel contesto preoccupante di un’ascesa dei nazionalismi e dei poteri autoritari nel mondo:

Temo un ritorno al clima internazionale che ha prevalso negli anni venti e trenta, quando gli Stati Uniti si erano ritirati dalla scena internazionale e gli altri paesi perseguivano unicamente i propri interessi, senza preoccuparsi delle problematiche più vaste.
Sottolineando che ogni epoca ha il suo fascismo, lo scrittore italiano Primo Levi, anch’egli un sopravvissuto dell’olocausto, riteneva che il momento critico può essere raggiunto “non solo con il terrore e l’intimidazione autoritaria, ma anche distorcendo le informazioni, intaccando il funzionamento della giustizia, paralizzando il sistema scolastico e diffondendo sottilmente un profumo di nostalgia per un’epoca in cui regnava l’ordine”.
Se Levi aveva ragione (e io ritengo che l’avesse) abbiamo motivo di essere preoccupati per l’insieme di correnti politiche e sociali che emergono nella nostra epoca, correnti aiutate dalle caratteristiche più sinistre della rivoluzione tecnologica, dagli effetti corrosivi del potere, dalla mancanza del rispetto per la verità da parte del presidente degli Stati Uniti e dalla generale accettazione nello spettro del normale e accettabile dibattito pubblico di insulti disumanizzanti, islamofobi e antisemiti.
Non ci siamo ancora arrivati, ma tutto questo somiglia a un segnale d’allarme che ci avverte che la nostra strada si avvicina a un epoca in cui il fascismo ha saputo prosperare e le tragedie individuali si sono moltiplicate per milioni di volte.

Questa lunga citazione dà la misura del clima internazionale come lo percepisce una delle personalità più rispettate della politica estera statunitense, una democratica vicina ai Clinton e dunque scottata dalla vittoria di Trump, ma abbastanza esperta da non lasciarsi influenzare.

L’autorità della democrazia
Bisogna aver vissuto la storia personale e familiare di Madeleine Albright per capire che non si deve usare la parola “fascismo” alla leggera. D’altronde il New York Times, che di recente ha pubblicato un intevento dell’ex segretaria di stato, ha scelto due titoli diversi per l’edizione americana e per quella internazionale, con la parola “fascismo” che è apparsa soltanto nella seconda.

Su Twitter, il giornalista americano Christopher Dickey, che da Parigi gestisce la sezione internazionale del sito Daily Beast, mi ha fatto notare a tal proposito che “negli Stati Uniti il fascismo è considerato un epiteto, non un sistema politico, anche quando fissa il pubblico americano dritto negli occhi”.

Impossibile non accostare questo dibattito in arrivo dagli Stati Uniti con il discorso grave, ma smorzato dal contesto politico e sociale francese, pronunciato da Emmanuel Macron davanti al Parlamento europeo. Il presidente francese ha lanciato, alla sua maniera, un “allarme” contro l’ascesa degli “illiberali” in Europa: “Non voglio permettere che si affermi l’illusione letale che, non dimentichiamolo mai e tanto meno qui, ha trascinato il nostro continente verso l’abisso, l’illusione del potere forte, del nazionalismo, dell’abbandono delle libertà. Rigetto quest’idea secondo cui la democrazia è condannata all’impotenza, un’idea che prende piede anche in Europa. Davanti all’autoritarismo che ci circonda, la risposta non è la democrazia autoritaria ma l’autorità della democrazia”.

Impedire agli Stati Uniti di andare alla deriva, malgrado e non grazie a Donald Trump: è questo il messaggio cruciale di Albright

Paradossalmente, una settimana dopo Emmanuel Macron si è ritrovato accanto Trump e ha parlato dei “nostri valori comuni”. Tuttavia dobbiamo tenere presente che questa danza di seduzione del giovane presidente francese nei confronti del suo vecchio e ambiguo collega americano nasconde un tentativo, lodevole ma per il momento inefficace, di mantenere gli Stati Uniti “dalla parte giusta” della separazione tra liberalismo e illiberalismo.

Impedire agli Stati Uniti di andare alla deriva, malgrado e non grazie a Donald Trump: è questo il messaggio cruciale contenuto nel libro di Albright. La speranza di vedere la forza delle istituzioni affermarsi su tutti quelli che, spinti dal suffragio universale in un contesto particolare, cercano di distruggerne le fondamenta come hanno fatto altri prima di loro.

Se il mondo è in pericolo come sostiene Madeleine Albright, se le forze illiberali hanno davvero il vento in poppa, è perché offrono risposte semplicistiche a problemi complessi per i quali negli ultimi anni le vecchie democrazie non hanno saputo trovare soluzioni, che si tratti dell’insicurezza culturale in un mondo aperto, della paura degli effetti della trasformazione tecnologica o della perdita di punti di riferimento in un’epoca di grande riconfigurazione geopolitica. In momenti come questo, spiega Albright, preferiamo affidarci all’uomo “forte” capace di navigare mari in tempesta, anche se non siamo sicuri di dove ci stia portando…

Molti penseranno che questo allarme contro il fascismo sia solo un tentativo di salvare un sistema che fa acqua da tutte le parti, ma questo significa fare poco caso alle lezioni della storia, sempre che ci si prenda la briga di ascoltarle.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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