25 maggio 2018 13:54

C’era un tempo in cui l’espressione di moda nelle relazioni transatlantiche era la famosa battuta di Kissinger: “L’Europa? Qual è il numero di telefono?”. A quanto pare oggi il problema non è più il numero, ma il fatto che sulle due sponde dell’Atlantico il telefono suona a vuoto.

Con la decisione di Donald Trump di ritirarsi dall’accordo nucleare con l’Iran e di imporre a Teheran le sanzioni più strette che si applicano unilateralmente alle imprese europee, la relazione transatlantica si è degradata come non si era mai visto dopo la seconda guerra mondiale. E un’Europa traumatizzata fa fatica a definire una strategia collettiva convincente per rispondervi.

Un breve scambio il 23 maggio su Twitter riassume bene l’incomprensione tra il “vecchio” e il “nuovo” mondo. Quando lo specialista americano di relazioni internazionali Walter Russell Mead ha twittato che “oggi la principale causa di tensione nelle relazioni transatlantiche deriva dal fatto che gli alleati europei si aspettano che gli Stati Uniti vedano il mondo come loro”, l’ambasciatore francese negli Stati Uniti Gérard Araud ha subito replicato: “Oggi la principale causa di tensione nelle relazioni transatlantiche deriva dal fatto che i nostri alleati americani si aspettano che gli europei vedano il mondo come loro”. Questo scambio la dice lunga sull’attuale incomprensione.

Riportiamo anche un altro tweet dello stesso ambasciatore, molto ripreso negli Stati Uniti: “A causa delle sanzioni americane l’azienda petrolifera francese Total dovrà sospendere le sue attività in Iran. L’azienda sarà sostituita da un’impresa cinese. Sono certo che dietro questa politica ci sia una logica”.

In 18 mesi di amministrazione Trump questo fossato ha continuato ad allargarsi. All’indifferenza – di cui la cancelliera Angela Merkel è stata la prima a fare le spese – sono seguite delle decisioni unilaterali a ripetizione, altrettante coltellate a quel patto transatlantico sul quale si basa una parte dell’ordine internazionale degli ultimi settant’anni. Le ultime nomine di “falchi” ai posti chiave dell’amministrazione con John Bolton come consigliere alla sicurezza nazionale e Mike Pompeo come segretario di stato non fanno che accentuare il disagio.

La cosa più grave è lo stato catastrofico delle relazioni transatlantiche in un momento di ridefinizione dei rapporti di forza internazionali

Sul clima, sul commercio, sull’Iran o su Gerusalemme gli europei sono stati sorpresi e scossi da un unilateralismo americano che non cerca neanche di preservare le apparenze (si veda l’ultimo discorso senza concessioni del capo della diplomazia americana sull’Iran) e che si disinteressa completamente del coinvolgimento o delle conseguenze per i suoi alleati.

Emmanuel Macron ne ha fatto la dura esperienza con lo schiaffo di Trump sull’Iran non appena terminata la sua cordiale visita di stato a Washington. A quanto pare tutto il suo investimento in tempo e in energia in questa relazione personale con un uomo al quale nulla lo avvicina non è servito a nulla. E anche se non possiamo rimproverargli di averci provato, il fallimento di questa iniziativa peserà molto nel suo bilancio diplomatico.

Ma la cosa più grave è lo stato catastrofico delle relazioni transatlantiche in un momento di ridefinizione dei rapporti di forza internazionali. Per gli europei è la fine delle certezze, perché come ha detto brutalmente Angela Merkel ad Aquisgrana in occasione della consegna del premio Carlo Magno a Macron, “l’Europa non può più contare sugli Stati Uniti per proteggerla”.

Questa dichiarazione è carica di conseguenze. Per decenni l’Europa occidentale, e poi il continente riunificato dopo la caduta del muro di Berlino, hanno contato sull’“ombrello” americano incarnato dalla Nato e dal suo articolo 6, che prevede la solidarietà automatica in caso di aggressione. Per questa ragione tutti i tentativi francesi di promuovere una difesa europea autonoma si sono scontrati con le reazioni degli altri europei: nel caso migliore un timido sì, piuttosto scettico sull’utilità di questa iniziativa; nel caso peggiore l’ostilità di un Regno Unito che si considerava il “migliore amico” degli Stati Uniti e quindi il protettore degli interessi di Washington in Europa.

Oggi però il re è nudo: l’Europa è disorientata e realizza che il legame che pensava molto solido con l’alleato americano è invece molto più fragile di quello che credeva. I balbettamenti della difesa europea e la difficoltà a organizzare rapidamente una risposta all’extraterritorialità delle sanzioni americane rendono l’Ue dipendente da queste decisioni unilaterali di Washington.

L’aspetto positivo di tutto ciò è che Trump ha creato fra i tre più grandi paesi dell’Unione europea – Germania, Francia e Regno Unito, tre firmatari dell’accordo nucleare con l’Iran – un sentimento di unità raramente visto in passato. Ricordiamo che nel 2003 in occasione della precedente grave crisi transatlantica, quando Parigi e Berlino avevano rifiutato di seguire l’amministrazione Bush nella sua drammatica avventura irachena, il primo ministro britannico Tony Blair aveva privilegiato la “relazione speciale” con gli Stati Uniti rompendo il fronte europeo. Si tratta quindi di un cambiamento storico, paradossalmente a meno di un anno dalla Brexit.

Il peso eccessivo di chi frena l’unità europea
Ma l’Europa non è comunque unita: l’Austria, l’Ungheria e la Romania hanno partecipato all’inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme mentre l’Ue ha deciso di astenersi, e la Repubblica Ceca pensa addirittura a traslocare la sua ambasciata nella città contesa.

L’Unione europea è anche divisa sui progetti di rilancio della sua integrazione politica e la formazione di un governo euroscettico a Roma, tra populisti ed estrema destra, non faciliterà di certo questa ricerca di consenso. Il peso di chi frena è diventato troppo grande per pensare di avanzare a 27.

Rimane quindi l’opzione di un nucleo forte basato sulla Francia e sulla Germania, e suscettibile di organizzare una risposta europea all’unilateralismo di Trump. Ma tutto ciò rischia di essere insufficiente per affrontare le emergenze del momento, e lascia grande spazio alle diplomazie nazionali come dimostrano i viaggi di Angela Merkel in Cina e di Macron in Russia.

Ma l’Europa non uscirà dalla sua alleanza storica con gli Stati Uniti, non ha né la capacità né la volontà di lanciarsi in questo costoso divorzio. Inoltre rischierebbe di trovarsi ancora più emarginata e vulnerabile in un mondo multipolare caotico, nel quale i grandi blocchi si testano a vicenda in assenza di chiare regole del gioco.

Nel caso migliore l’Europa cercherà in un modo o nell’altro di organizzarsi, di definire i contorni di quella futura coerenza così come la propone Macron a chi vuole andare avanti con lui; e soprattutto di sopravvivere in attesa che finisca l’incubo Trump.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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