Oggi Edmundo González Urrutia dovrebbe essere presidente del Venezuela. E invece lo scorso sabato è partito da Caracas a bordo di un aereo militare spagnolo, diretto a Madrid per un esilio senza ritorno.

Questo è l’epilogo (ancora provvisorio) della crisi politica aperta dalle elezioni presidenziali di luglio. González era la speranza dell’opposizione di sconfiggere il presidente Nicolás Maduro e il suo regime militare in stato di fallimento. Ma alla fine Maduro è stato proclamato vincitore con il 52 per cento dei voti, nonostante l’opposizione abbia mostrato dei dati provenienti dai seggi elettorali secondo cui González avrebbe ottenuto il doppio dei voti rispetto all’avversario. Il regime non ha prodotto alcuna prova della sua presunta vittoria.

Maduro ha reagito come al solito, reprimendo le proteste popolari contro questo palese furto elettorale. Sono state arrestate 1.700 persone, mentre contro il candidato dell’opposizione è stato spiccato un mandato di cattura per terrorismo. A 75 anni, Gonzales ha preferito l’esilio alla certezza del carcere.

Il presidente venezuelano ha due assi nella manica. Il primo è la sua capacità infinita di repressione, che i suoi avversari hanno ben presente perché ne sono stati vittime diverse volte in passato.

Il secondo è la fedeltà dell’esercito, confermata per l’ennesima volta. Per capire questa lealtà bisogna sottolineare che i militari godono di enormi privilegi in un paese in crisi e che sono a loro volta sorvegliati da vicino. Durante l’estate i venezuelani hanno guardato con invidia alla fuga della presidente autoritaria del Bangladesh, abbandonata dall’esercito dopo aver ordinato la repressione di alcune manifestazioni. Ma lo scenario bangladese non si è riprodotto a Caracas.

Resta il fatto che quella di Maduro è una vittoria fragile. Se i risultati indicati dai documenti in possesso dell’opposizione sono reali, significa che due terzi del paese non tollera più il suo regime. Inoltre, bisogna tenere presente una situazione internazionale delicata.

Maduro potrebbe ignorare le critiche se provenissero solo dagli Stati Uniti e dai loro alleati, a cominciare dagli europei. L’ostilità di Washington, che più volte ha complottato per far cadere il regime chavista, è un tradizionale strumento di distrazione.

Ma gli statunitensi non sono gli unici ad aver attaccato il regime di Caracas. Maduro, infatti, si è inimicato anche paesi guidati dalla sinistra democratica che difficilmente possono essere considerati cortigiani degli Stati Uniti, come il Brasile di Lula, il Messico, la Colombia o il Cile. La tensione, in questo contesto, continua a crescere. Sei leader dell’opposizione sono ancora rifugiati nei locali dell’ambasciata argentina a Caracas, protetti dal Brasile dopo la partenza dei diplomatici argentini. Il governo di Caracas vorrebbe catturare i fuggitivi, dando uno schiaffo a Brasília.
La deriva del regime di Caracas ha creato un fossato tra la sinistra democratica e la sinistra autoritaria, con Cuba e il Nicaragua rimasti gli ultimi alleati di Maduro in America Latina. La sinistra democratica latinoamericana ha definito Maduro “un dittatore”, mentre gli ammiratori del regime all’estero, e in particolare in Francia, tacciono. È un altro paradosso del colpo di mano elettorale.

In questo paese che ormai si trova in caduta libera, con otto milioni di esuli, le elezioni sono state un’occasione mancata per voltare pagina. La partenza di González è il simbolo di questa deriva. Ma la storia non è ancora finita.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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