Quando ho letto La vegetariana di Han Kang (premio Nobel per la letteratura nel 2024), ho capito subito di trovarmi davanti a una delle scritture più intelligenti e raffinate della narrativa contemporanea. Sotto la storia di una donna che smette di mangiare carne si nascondevano riflessioni su controllo autoritario, desiderio e volontà di vivere un’esistenza “meno sbagliata”. Il libro bianco si discosta dai suoi romanzi precedenti: è una meditazione frammentaria sulla morte della sorellina della narratrice, vissuta solo due ore. Han Kang descrive con semplicità la madre di 22 anni che partorisce da sola e tenta di nutrire la neonata con una tenerezza disperata. Scritto durante una residenza a Varsavia, il libro riflette sull’idea di ricostruzione e memoria: come una colonna rimasta intatta dopo un bombardamento del 1944, la presenza della sorella diventa parte della storia dell’autrice. Han Kang elenca oggetti bianchi legati alla nascita, alla morte e al lutto: garze, latte, ossa, nebbia, sperando che la scrittura stessa diventi una cura, un unguento bianco posato su una ferita. Attraverso immagini di neve, silenzio e fragilità, Han trasforma il bianco in un linguaggio del dolore e della purezza. A tratti il testo sfiora una “psicogeografia del lutto”con una calma dignità. Il libro bianco è un testo misterioso, forse una preghiera laica, che commuove quando la narratrice si rivolge direttamente alla sorella: “Volevo mostrarti solo cose pulite, prima della brutalità e del dolore”.
Deborah Levy,The Guardian
Tra i molti premi per la sua opera, Alexis Wright ha vinto il Miles Franklin, il più prestigioso riconoscimento letterario australiano. È paradossale, ma significativo, che il suo epico romanzo Meritoria sia uscito proprio nel 2025, quando gli australiani hanno votato contro la proposta di ampliare i diritti politici delle popolazioni indigene. Scrittrice e attivista aborigena, Wright firma un Ulisse ambientato nel Territorio del Nord, un romanzo appassionato e difficile, ludico, polifonico, allegorico e vertiginoso, incrocia Joyce e García Márquez, Borges, Chatwin e Arundhati Roy. Tutto si fonde: realismo e magia, sogno e realtà, asini e farfalle, Odissea e Mago di Oz. Dietro la potenza linguistica si sente il dolore di una terra spogliata, bruciata da secoli di sfruttamento dopo millenni di cura aborigena. La storia segue la famiglia Steel, che vive ai margini del paese di Praiseworthy (“meritorio” in italiano) durante il cosiddetto intervento voluto dal governo Howard nel 2008, catastrofico per le comunità indigene. Ma il racconto attraversa le epoche, fino ai tempi di Trump e dell’emergenza climatica. Nonostante l’intensità e la complessità, la voce narrativa è calda, salmastra, di struggente bellezza. Nel finale, quando l’eroe ritorna, guidato da uno sciame di falene, la moglie legge “il testo delle loro ali”, un volo dell’incommensurabile, una mappa del tempo. Un’immagine fantasmagorica che sembra descrivere lo stesso romanzo: vasto, visionario e terribilmente necessario.
Ruth Padel, The Spectator
Abbiamo sentito (e spesso predicato) l’importanza di dare voce a chi è ai margini, ma la narrativa contemporanea raramente offre personaggi neurodivergenti davvero complessi. Gary Shteyngart colma questa lacuna con Vera, o la verità, storia di una bambina di dieci anni, brillante e malinconica, che vive a Manhattan in un futuro prossimo. Vera Bradford-Shmulkin è un prodigio delle scienze, appassionata di linguaggio e tecnologia, e ha un lieve disturbo dello spettro autistico: cammina sulle punte, agita le braccia, lotta contro il suo “cervello da scimmia”. Non è oggetto di pietà, ma un’eroina consapevole, una piccola Virgilio che guida il lettore attraverso un’America inquieta. Figlia di un intellettuale russo-americano, Igor Shmulkin, sposato con la seconda moglie Anne, attivista liberal e madre adottiva, Vera cresce tra due mondi. La madre biologica di origini coreane è un’ombra lontana. Shteyngart tratteggia con ironia la vita familiare newyorchese degli anni 2030: auto a guida autonoma, intelligenze artificiali come mentori e salotti progressisti. Sullo sfondo, degli Stati Uniti dilaniati da attacchi xenofobi. In questo contesto, Vera partecipa a un dibattito scolastico che riflette le fratture del paese, mentre cerca la madre scomparsa e la verità su se stessa. Vera, o la verità brilla di ironia e malinconia, mescola satira politica e tenerezza domestica.
Hamilton Cain, Los Angeles Review of Books
Fernández Mallo è uno dei principali scrittori sperimentali spagnoli. Il libro di tutti gli amori immagina ciò che resta dell’amore in un mondo post-apocalittico. Due amanti, sopravvissuti al “grande blackout”, analizzano le diverse forme del sentimento. Come di consueto, Mallo parte da un fatto o da un’osservazione, per esempio, i bambini che non credono più all’esistenza di Babbo Natale, per affermare che tutti i misteri derivano da un linguaggio cifrato (sono le parole, infatti, a rendere credibile Babbo Natale). Da qui deduce che il linguaggio dell’amato sia l’unico codice impossibile da decifrare. Le argomentazioni sono spesso ingegnose, anche se le conclusioni talvolta risultano un po’ forzate. Più riuscita è la parte ambientata prima dell’apocalisse, a Venezia, dove una scrittrice e un professore di latino in pensione vanno a vivere e a lavorare. Qui il senso di minaccia e una malinconica tensione sono resi in modo magistrale dalla prosa cupa e intensa di Mallo.
Michael Cronin, The Irish Times
Inserisci email e password per entrare nella tua area riservata.
Non hai un account su Internazionale?
Registrati