Cultura Suoni
What of our nature

Quando Woody Guthrie morì a 55 anni, nel 1967, lasciò dietro di sé testi annotati su carta da regalo e tovagliette. Bozze di ballate, canti sindacali e inni di protesta. Il suo lascito ha permesso a musicisti contemporanei di mettere in musica quei testi inediti, scoprendo che il suo messaggio è ancora attuale. Scrivere nello spirito di Guthrie, come fanno Haley Heynderickx e Max García Conover nel loro album What of our nature richiede immaginazione politica, non solo interpretazione creativa. Nei dieci brani, che affrontano temi come consumismo e storia del lavoro, i due artisti rinnovano l’eredità di Guthrie facendo un esercizio di democrazia. I due avevano già collaborato nel 2018. Il nuovo album, registrato nel Vermont, è ancora più terreno. I testi evocano la natura, ma anche i fantasmi del capitalismo e del colonialismo. Il disco riflette anche sull’efficacia dell’arte in tempi di crisi. I brani migliori sono quelli che si appoggiano ai poeti che citano, come In Bulosan’s words, la dimostrazione che la poesia può essere un’arma di resistenza. What of our nature è un inizio promettente e mostra un potenziale artistico ancora più incisivo.
Walden Green, Pitchfork

Tremor
Daniel Avery (Kalpesh Lathigra)

L’ultimo album del musicista britannico scuote nel migliore dei modi possibili. Non è tanto una questione di ascoltarlo ma di entrarci dentro, con un lento movimento che porta in una stanza dove le chitarre shoegaze risplendono e si scontrano con il riverbero industrial e i fantasmi di nottate ansimanti. È musica per quando la festa è finita, le strade sono tranquille ma si torna a casa con i bassi che vibrano ancora nelle ossa. Rapture in blue aleggia tra il club e le nuvole, mentre la cantante di Los Angeles Cecile Believe respira attraverso la foschia su un ritmo senza riposo; è una sensazione di euforia rallentata. Greasy off the racing line invece è più incendiaria: siamo in un motore, tra fumo e calore e la voce di Alison Mosshart dei Kills s’insinua di soppiatto per guidarci in un viaggio notturno su un’auto con i fari rotti. Tremor lascia un sapore in bocca che fa venire voglia di averne ancora; è un disco che mette insieme elementi apparentemente lontani. E più ci addentriamo nell’ascolto, più si rivela con nuove trame e variazioni interessanti.
Maria Luísa Richter, Northern Transmissions

Sama’a (Audition)
[Ahmed] (Lisa Grip)

Gli [Ahmed] sono un quartetto jazz amante delll’improvvisazione e capace di creare un suono travolgente: trame fitte di sax, ammassi pianistici esplosivi, basso pulsante e batteria instancabile. La loro musica genera un’energia euforica simile a quella dell’elettronica, combinando la libertà del free jazz con la fisicità ritmica. Per loro, il ritmo è la struttura portante: niente assoli virtuosistici, ma interazione serrata. Il nuovo album Sama’a (Audition) è il primo registrato in studio, dopo vari dal vivo, e reinterpreta Jazz Sahara (1958) di Ahmed Abdul-Malik, contrabbassista e suonatore di oud statunitense che fuse jazz bebop, linguaggi modali e influenze arabe e africane. Abdul-Malik, musicista visionario e sufi praticante, cercò di riallacciare la musica nera americana alle proprie radici islamiche; gli [Ahmed] trasformano questo materiale in un jazz radicale, lontano da qualsiasi museo della tradizione. I quattro brani del disco, lunghi tra i 14 e i 19 minuti, mostrano una concentrazione ancora maggiore rispetto ai live: la registrazione in studio offre chiarezza sonora e nuovi spazi di dialogo. Il brano Isma’a si apre con un poderoso duo basso-batteria, tra swing antico e poliritmie contemporanee, su cui il sax esplode in corse frenetiche prima di ricomporsi nella melodia. El Haris esplora invece territori astratti, fatti di rumori, preparazioni e frammenti melodici che emergono lentamente. Sama’a (Audition) ritrae gli [Ahmed] al massimo della loro forma: un gruppo che attraverso Abdul-Malik ha trovato un universo sonoro infinito in cui muoversi con intensità, invenzione e coesione.
Stewart Smith, The Quietus

Schubert 4 hands

Le opere tarde di Franz Schubert per pianoforte a quattro mani hanno attirato negli anni accoppiate stellari, da Benjamin Britten e Svjatoslav Richter a Radu Lupu e Murray Perahia. Eseguirle con successo richiede un’affinità con il mondo sonoro del compositore e la disponibilità a condividere un unico strumento, che spesso implica un diverso modo di concepire la meccanica del fare musica. Leif Ove Andsnes e Bertrand Chamayou hanno una perfetta sintonia emotiva. La grande Fantasia in fa minore vede il norvegese distendere linee liriche fluide sopra il morbido basso del francese. Le dinamiche sono scolpite in modo impeccabile; il Largo centrale ha un peso notevole, con trilli equilibrati dall’inizio alla fine. Sanno essere anche giocosi, benché il loro istinto tenda verso l’interiorità, sondando lo spirito della musica. Il ritorno del tema principale lascia senza fiato. L’Allegro in la minore, pubblicato postumo con il titolo Lebensstürme (tempeste della vita), è pieno di urgenza drammatica, con Chamayou che si lancia con vigore nella parte di primo. Andsnes gli sta accanto in un torrente di passaggi turbolenti. Il norvegese torna in primo piano per il Rondò in la maggiore, un’interpretazione colloquiale piena di bonaria cordialità. La registrazione offre un suono caldo e realistico.
Clive Paget, The Guardian

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1643 - 5 dicembre 2025
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