Benché i libri di Hilary Mantel possano essere diversissimi per ambientazione e trama, alcuni temi ricorrono con insistenza, in particolare le molteplici sfaccettature del male. È una questione enorme (quasi indecentemente enorme, direbbero alcuni) e finora Mantel l’ha affrontata in modo indiretto, come un sottotesto. In Cambio di clima, forse il suo romanzo più radicale, affronta invece l’argomento a viso aperto. Il libro si apre in modo ingannevole, con una scena che ricorda una di quelle saghe familiari da campagna inglese: la moglie e l’amante di un uomo si incontrano al suo funerale. Ma l’inganno, sia narrativo sia morale, è al centro di un libro il cui segreto oscuro è prefigurato già alla seconda pagina, benché in un modo che si coglie solo rileggendo il romanzo. Intanto ci vengono presentati, con l’abituale perizia di Hilary Mantel, Ralph e Anna Elsted, i loro figli, i parenti e la popolazione transitoria di “ospiti” della loro grande e malandata casa nella campagna del Norfolk. Questi ospiti sono tossicodipendenti, ragazzi senzatetto e casi psichiatrici borderline: anime perdute che Ralph porta in casa per via del suo ruolo di direttore di un’organizzazione religiosa. Le bizze, le scortesie e in certi casi i reati degli ospiti vengono sopportati all’infinito da Anna e, più a fatica, dai figli. A prima vista, gli Elsted sono semplicemente due buoni cristiani altruisti e ammirevoli. Poi si passa dietro le quinte, attraverso una sequenza onirica (uno dei pochi espedienti un po’ goffi in un testo altrimenti magistrale) per assistere all’educazione di Ralph impartita da un patriarca fondamentalista. Un padre che lo ricatta per farlo rinunciare al sogno di diventare geologo, perché “darwinismo significa ateismo”. Frustrato nei suoi desideri, Ralph parte con la giovane moglie Anna per gestire una casa missionaria finanziata dalla chiesa in uno slum sudafricano. Siamo negli anni cinquanta, poco dopo l’approvazione del Bantu education act, che impose l’analfabetismo a tutta la popolazione non bianca. Il racconto dell’impatto brutale con la realtà sudafricana dell’apartheid sugli Elsted è un vero tour de force. Hilary Mantel non è mai enfatica e non edulcora nulla: lavora per accumulo, mettendo insieme dettagli osservati con tale precisione da sembrare vissuti in prima persona.
Michael Dibdin, The Independent (1994)
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Questo articolo è uscito sul numero 1643 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati