04 luglio 2015 10:56

Lo stridore dei freni, grida nella notte. Sono le undici di sera, il treno proveniente da Salonicco arriva nella piccola stazione di frontiera a Tabanovce, nel nord della Macedonia. La Serbia dista solo un chilometro. Una ventina di poliziotti armati si è posizionata ai due lati della ferrovia e aspetta che le ombre scendono dai vagoni. Uomini, donne, bambini, neonati portati in braccio dai genitori.

La maggior parte di questi migranti proviene dalla Siria, dall’Iraq o dall’Afghanistan, sono in cammino da mesi. Sotto il sole caldo hanno percorso a piedi o in bicicletta l’autostrada che dalla frontiera greca conduce nel nord della Macedonia.

La scorsa settimana il governo macedone ha approvato una legge che autorizza i migranti a usare i mezzi di trasporto pubblici per lasciare il paese (prima era vietato). La legge è appena entrata in vigore.

“Da questa parte, seguiteci!”. La polizia macedone non si formalizza. A gruppi di cinquanta, i migranti sono inghiottiti dalle tenebre, dietro a uomini armati che indicano una direzione nella notte.

“Un chilometro, Serbia, Serbia!”. Tutte le sere, centinaia di persone s’incamminano attraverso i campi per eludere la sorveglianza delle guardie di frontiera serbe. A dire il vero per Belgrado imporre un blocco vero e proprio è impossibile. Di tanto in tanto alcuni migranti sono respinti oppure picchiati, ma tutti alla fine riescono ad attraversare il confine. “Camminate in quella direzione, non fate rumore”.

L’operazione è durata meno di dieci minuti, si tratta di gestire un migliaio di persone che arrivano ogni sera a Tabanovce. Oggi sono scesi 700 profughi dal treno delle 21 proveniente da Gevgelija, una città nel sud della Macedonia, e altri 150 da quello delle 23. Il prossimo treno arriverà domani mattina alle otto.

Da diverse settimane Aleksandra dorme quattro ore per notte, ascolta, consiglia e organizza la rete di supporto per i migranti che attraversano la regione

Aleksandra afferra un sacchetto di plastica, ci infila dentro una pagnotta, una bottiglia d’acqua e due barattoli di carne in scatola. Da diverse settimane la giovane donna dorme quattro ore a notte, ascolta, consiglia e organizza la rete di supporto degli abitanti della città nei pressi di Kumanovo per i migranti che attraversano la regione. Questa sera, con altri cinque o sei volontari, ha negoziato con la polizia il permesso di distribuire de pacchetti con delle provviste a quelli che scendono dal treno.

“Una famiglia con un bambino disabile dorme nella sala d’attesa della stazione, sono troppo stanchi per cercare di attraversare la frontiera stanotte. La Croce rossa macedone non vuole intervenire, ho paura che i poliziotti possano portarli al centro di detenzione di Gazi Baba, a Skopje. Lì è un inferno, non hanno alcuna possibilità di sopravvivere”, spiega.

La Macedonia, che è un paese di transito, non è in grado di affrontare l’afflusso dei profughi. Alla stazione doganale situata sull’autostrada, un responsabile della polizia conferma che non ci sono accordi ufficiali tra la Macedonia e la Serbia sulla sorte di questi migranti.

Da domenica, i poliziotti dei due paesi hanno approvato un’intesa informale per lasciare passare i migranti. Tuttavia questo non elimina tutti i pericoli: bande di delinquenti continuano ad aggredire i migranti nei villaggi macedoni vicini alla frontiera. “Procediamo in gruppo e siamo armati”, dichiara un uomo, mostrando qualche coltello.

Migranti nella stazione ferroviaria a Tabanovce, al confine tra Macedonia e Serbia, il 1 luglio 2015. (Dimitar Dilkoff, Afp)

Per tutto il giorno gruppi di migranti procedono lungo i percorsi che conducono a Presevo, la prima città serba situata a una decina di chilometri dalla frontiera. Se fanno domanda di asilo in territorio serbo, otterranno un lasciapassare di 72 ore che in teoria dovrebbe consentirgli di raggiungere i centri di accoglienza del paese. In realtà con quel certificato potranno prendere il treno per Belgrado. Da qui la frontiera ungherese dista solo 200 chilometri. È a portata di mano se si arriva da Homs o da Raqqah.

Che fa lo stato, che fa l’Europa?

Quello che i migranti ignorano ancora è che per il rilascio del documento possono essere necessari giorni, anche se la polizia ha incrementato il numero degli agenti che si occupano di questa pratica e prolungato gli orari di apertura dei commissariati. Un brigadiere denuncia traffici illeciti e racconta che alcuni fanno la fila due volte, ottengono due documenti per rivenderli a chi non ha tempo da perdere.

Da una settimana centinaia di persone sono ammassate vicino al commissariato di polizia di Presevo. Dormono per strada o trovano riparo in una delle due tende cachi montate dalla Croce rossa serba su un campo pieno d’immondizia. I pochi bagni sono affollati, la distribuzione dei pasti è irregolare. Di tanto in tanto passano delle unità mediche mobili dell’esercito serbo e di Medici senza frontiere per curare i casi più urgenti, soprattutto ferite provocate dal lungo cammino.

Quelli che hanno un po’ di soldi invadono i bar. Oggi alcuni nigeriani si sono rifugiati in un locale specializzato in carne alla brace. Gli uomini sono sfiniti, si rifiutano di parlare. Sami gestisce un bar in cui una decina di migranti è seduta ai tavoli. “È incomprensibile, donne, bambini per strada. Che fa lo stato, che fa l’Europa?”, è indignato. “L’altra sera c’è stato un temporale, ho fatto dormire decine di persone nel mio bar. Cerchiamo di aiutarli, ma sono migliaia”.

L’Unione europea ci parla di democrazia e di diritti umani, ma dove sono gli europei? Queste persone sono ferite, senza forze, spesso sono state picchiate o derubate

Martedì sera alcuni tassisti di Belgrado proponevano ai migranti di condurli fino alla capitale serba per 300 euro a persona.

All’improvviso si sparge una voce: ha aperto il commissariato per rilasciare i permessi. Decine di persone si mettono a correre per cercare di avvicinarsi il più possibile alle grate che circondano l’edificio. Molti zoppicano, a causa delle fatiche del lungo tragitto. Tanta preoccupazione per nulla, era solo un falso allarme. “Siamo arrivati ieri”, racconta un giovane padre siriano, “ma da quanto ne so ci vogliono tre giorni per ottenere i documenti. Mia figlia è malata, dove possiamo dormire?”. Una donna è stesa per terra, non riesce ad alzarsi. “Ho conosciuto i campi profughi in Siria”, dichiara Mohamed, un professore di inglese. “Ma non ho mai visto condizioni così catastrofiche”.

“L’Unione europea ci parla di democrazia e di diritti umani, ma dove sono gli europei? Queste persone sono ferite, senza forze, spesso sono state picchiate o derubate”, afferma Avdi Avdiu, un albanese di Kumanovo che partecipa alla rete di solidarietà. I migranti vogliono cercare di proseguire il più rapidamente possibile, temono la chiusura della frontiera ungherese.

Perché a Budapest il governo del primo ministro ungherese Viktor Orbán ha annunciato la costruzione di un reticolato alto quattro metri e lungo 175 chilometri. Unità militari serbe e ungheresi hanno già cominciato a pattugliare la frontiera. Martedì scorso il ministro dell’interno serbo ha dichiarato che il problema non riguarda l’Ungheria, ma la Macedonia, “incapace di controllare le sue frontiere”. Se il blocco dovesse diventare effettivo, la Serbia potrebbe respingere verso la Macedonia i migranti che aspettano di andare in Ungheria. Decine di migliaia di persone potrebbero restare intrappolate in mezzo ai Balcani, bloccate alla frontiera tra Macedonia e Serbia.

Al calare della notte, al campo arriva un nuovo gruppo di persone in cammino, provengono dal villaggio di frontiera di Miratovac. Una donna su una sedia a rotelle viene spinta dai suoi due figli. È partita diversi mesi fa dalla Siria.

(Traduzione di Giusy Muzzoppappa)

Questo reportage è stato pubblicato all’interno del progetto #OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri sei giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), Inkyfada (Tunisia).

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