24 gennaio 2017 16:00

Le quattro forti scosse di terremoto del 18 gennaio hanno avuto epicentro tra la vallata dei comuni di Montereale e Capitignano e l’altopiano di Campotosto. Queste zone montane rientrano nel cratere sismico del terremoto dell’Aquila del 2009 e in quello del centro Italia dello scorso anno. L’emergenza per il sisma si è sovrapposta all’emergenza maltempo: molte persone intrappolate dalla neve non sono neanche riuscite a scappare da casa.

La prima strada per raggiungere Campotosto è stata aperta solo nel pomeriggio del 20 gennaio, così la mattina dopo insieme al fotografo Antonio Di Cecco ci siamo messi in viaggio. Lui è originario di Mascioni, una frazione di Campotosto, io ho un pezzo d’infanzia legato a quei luoghi simile a uno scatolone riposto in cantina. E così, mentre la strada si faceva più impervia e le pareti di neve fresata ai margini dell’unica corsia s’innalzavano da cinquanta centimetri a oltre due metri, da quello scatolone hanno cominciato ad affiorare ricordi, immagini.

L’anima di Ortolano
Le turbine sembravano enormi gusci di lumaca metallici, l’aquila imbalsamata davanti alla sala quadri mi faceva paura, ma superata la paura, le pareti di pulsanti luminosi per attivare la centrale idroelettrica di Provvidenza mi lasciavano senza fiato. Era il 1986, avevo cinque anni quando accompagnai mio padre a visitare quello che sarebbe stato il suo posto di lavoro per dieci anni. Se chiudo gli occhi, vedo ancora il bosco rigoglioso di fronte al villaggio per le famiglie dei dipendenti Enel, dove con i miei passammo un paio di estati. Ricordo il rumore del vento, il freddo anche in agosto, nei nervi ho traccia della paura delle vipere. Ogni cosa era selvaggia, eppure subito familiare.

Ogni mattina andavamo al lago di Campotosto, riserva naturale e lago artificiale più grande d’Abruzzo, dal quale si alimenta la centrale. D’estate, nonostante l’unico camping sia stato chiuso da tempo e i terremoti abbiano seriamente compromesso l’accoglienza turistica, si registrano ancora afflussi da ventimila, trentamila presenze a stagione. La natura, il buon cibo, la tranquillità, la genuinità sono le risorse che attirano camperisti e motociclisti, nonché turisti di ritorno ormai emigrati nelle grandi città.

Da piccoli, non avendo il permesso di fare il bagno perché pericoloso ed essendo le rive argillose troppo scoscese per il pallone, trascorrevamo le giornate a giocare a biglie scavando piste piene di ostacoli. Qualche volta facevamo due passi nei vicoli di Mascioni o di Campotosto, per fare la spesa o solo per trovare un po’ di refrigerio dal caldo d’altura. Oppure prendevamo un gelato da Serena, la storica trattoria situata vicino alla diga del Fucino. Tutt’intorno, la maestosa catena dei monti della Laga faceva da cornice.

La sera, se non stavamo sotto le palazzine a giocare a nascondino o a spiare i primi baci dei ragazzi più grandi, andavamo nel piccolo paese di Ortolano; c’era un bar ristorante e tanti altri bambini, molti dei quali figli dei colleghi di mio padre. Di Ortolano ho tre ricordi vividi: la mia prima partita a un videogame di navicelle spaziali, il fumo d’arrosto alla festa della Madonna degli Angeli, la Suzuki Vitara azzurra di Enrico con i suoi clacson speciali. Enrico ci caricava anche in dieci dentro quella jeep e ci portava in giro. Ricordo il suo sorriso. “Era l’anima di Ortolano”, ha detto mio padre appena saputa la notizia. “Righetto era sempre pronto allo scherzo, ed era sempre il primo ad aiutare gli altri. Organizzava la festa di Ortolano, organizzava cene. Non cucinava, ma si svegliava alle sette e ti faceva trovare tutto ciò di cui c’era bisogno”. Quando nel 1992 mio padre e i suoi colleghi rimasero bloccati per una nevicata simile a quella di questi giorni, fu Enrico a uscire nella bufera per andare a prendere le provviste per tutti.

Enrico è stato travolto da una slavina provocata dal terremoto. Stava pulendo il vialetto di casa dai tre metri di neve che hanno sommerso Ortolano. Gli altri 23 abitanti sono stati tratti in salvo in elicottero due giorno dopo. Solo allora i soccorsi sono riusciti a trovare Enrico, era a mezzo metro dalla porta di casa.

Neve e ciaramelle
Raggiungiamo Poggio Cancelli verso le 9.30. Dal 24 agosto sono passato spesso da qui per andare ad Amatrice e noto subito gli effetti del terremoto seppur mascherati dalla coltre di neve: crepe sulla chiesa di San Giorgio, sulle case, un crollo nella torretta dell’hotel Gran Lago e vistose X sulla facciata, i tetti delle stalle infossati. Negli 11 moduli abitativi provvisori (Map), costruiti per il sisma del 2009 e consegnati a marzo del 2010, incontriamo Enrico, Teta, Annamaria, Iole, la proprietaria dell’albergo. La scossa li ha colti durante una bufera di neve. Quelli che non sono riusciti a scappare sono ancora qui, ospitati dai compaesani già sfollati ormai da otto anni; stanno anche in quattro o cinque dentro moduli da due. Dei 70 abitanti ne sono rimasti una trentina. La neve arriva alle finestre, sono senza acqua dal 17 gennaio, i cellulari, mi dicono, sono senza linea e non effettuano neanche chiamate d’emergenza. Per fortuna la corrente elettrica non è mai andata via.

Modulo abitativo privato nella frazione di Poggio Cancelli, 21 gennaio 2017. (Antonio Di Cecco, Contrasto)

La signora Teta è un vulcano, in poche battute mi fa il punto della situazione dal 2009 a questa mattina, poi esce per andare incontro ad alcuni volontari e mi lascia a parlare con Enrico. Enrico respira con la bombola d’ossigeno, ha gli occhi lucidi. Mi dice che il 18 gennaio suo figlio ha impiegato più di due ore a raggiungere la loro stalla che dista solo un chilometro. La struttura sta bene, ma le bestie sono rimaste senza acqua e dovevano essere munte. Il direttore della Asl veterinaria dell’Aquila, contattato telefonicamente, gli ha suggerito di scongelare la neve mettendo la benna del trattore sul fuoco, ma per dissetare sessanta, settanta bovini ci sarebbe voluta una vita. “Questa non ci voleva”, dice sconfortato, “questo è il colpo di grazia”.

Entra Annamaria, poi sua madre, poi la signora Iole, sanno che c’è un giornalista e vogliono raccontare la loro storia, i momenti in cui sono state colpite dalle scosse, come Iole, che non potendo far altro, si è gettata nella neve. Io però le sorprendo, gli chiedo di Poggio Cancelli, delle feste di paese, delle tradizioni. E il loro viso s’illumina. “La sposa pojana”, dicono in coro. Dopo una quindicina d’anni, nel 2016 erano riusciti finalmente a riorganizzarsi, a costituire l’associazione radici pojane e in agosto a riproporre l’evento. Si tratta della rappresentazione in costume di un matrimonio tradizionale, dalla serenata e la preparazione del corredo, alla festa serale in casa dello sposo, il tutto accompagnato dalle ciaramelle, uno strumento simile alla zampogna. Tutto il paese ha partecipato e l’affluenza, mi dicono orgogliose, è stata straordinaria.

Quando esco dal Map per andare a cercare Antonio, incontro altre persone, tra loro c’è Emidio, un allevatore che ha perso quaranta pecore nel crollo della stalla. Mi dice che se voglio posso andare a vederle, le carcasse degli animali sono ancora lì. Anche una parte di casa sua è crollata e insiste nel dire che “non è possibile che siano arrivati prima i giornalisti che i soccorsi!”. Ed ecco il servizio del quotidiano Il Centro al quale si riferisce. Negli ultimi minuti del video appare proprio Poggio Cancelli, la stalla del signor Emidio e sua sorella che dichiara al giornalista: “Questa mattina ho parlato con il geometra (Marzi Massimo del comune di Campotosto) che mi ha detto che dobbiamo andare via da questo paese perché gli creiamo problemi […], e io con le bestie come faccio? Viaggi! Ecco qual è la risposta”.

Poggio Cancelli, 21 gennaio 2017. (Antonio Di Cecco, Contrasto)

Per strada recupero Antonio che mi dice di aver incontrato Ottorino Bartolozzi, un cantante della radio e stuntman, che da qualche anno si è ritirato a Poggio Cancelli. Pare avesse tre Maserati e che abbia vissuto una vita di eccessi, ma sia caduto in disgrazia, insomma una storia dentro la storia.

Intorno a un tavolo per ripartire
A Campotosto il clima è decisamente più caotico. La strada principale è affollata, abitanti, impiegati comunali, vigili del fuoco, volontari della protezione civile. I danni sono evidenti a cominciare dall’edificio del comune in parte crollato (e già restaurato dopo il 2009), la chiesa di Santa Maria Assunta è gravemente lesionata, così come le case tutto intorno, e la situazione peggiora nella zona bassa del paese verso il lago. E pare esserci anche più neve, dopotutto siamo a 1.420 metri sul livello del mare.

Nell’agitazione, la prima persona con cui riesco a parlare è Ercole Di Girolami, ex sindaco. Mi dice che ormai hanno perso tutto, casa, lavoro, non c’è speranza di ripartire. “L’unica soluzione”, dice, “è mettersi tutti intorno a un tavolo, comune, prefettura e regione, e riprogrammare da zero la rinascita di queste zone”. La situazione che si è creata è “ridicola”, hanno dovuto aprirsi dei varchi nella neve da soli, la strada statale 80, la principale strada di comunicazione, è rimasta bloccata e al momento, l’unica via che porta ai Map, costruiti nella parte alta del paese, passa in mezzo a case pericolanti. Il rischio per le persone è davvero alto.

Poco distante, assisto a una conversazione. Alcune persone accorse questa mattina stanno cercando di convincere altri residenti ad andare via, a scendere all’Aquila, almeno finché le scosse non cessino e la neve sia rimossa. Davanti alla strada per i Map c’è un comandante dei vigili del fuoco che sta parlando con un uomo minuto, è il sindaco Luigi Cannavicci. Gli sta impartendo ordini ai quali il sindaco risponde solo con un cenno della testa, senza ribattere in alcun modo, senza prendere nota. Mentre si attende che una casetta di legno dei carabinieri sia liberata e adibita a ufficio comunale, c’è da prendere il necessario nella sede inagibile, perimetrare la zona rossa, richiedere mezzi per avviare le demolizioni di messa in sicurezza, sgomberare la piazza dove sarà istituito un centro avanzato dei vigili del fuoco che permetterà il recupero dei beni nelle case e aiuterà allevatori e negozianti, spalare la neve dai Map, chiamare l’Anas per riaprire definitivamente la statale 80, e altro, altro ancora. C’è tantissimo da fare e a pensarci dovrà essere quest’uomo minuto che al momento fa solo sì con la testa.

Con Antonio decidiamo di raggiungere i Map, dove si sono rifugiati una settantina di abitanti su 542 residenti. Per i vicoli c’è odore di gas, pareti di neve alte tre metri, crepe vistose, molti danni. Nella salita ci accompagna Claudio, un signore di Mascioni. “Brutto e bello lo fa il terremoto, il resto dei danni lo fa la mente degli uomini”, dice. Poi denuncia una cosa vergognosa: nonostante l’emergenza, alcuni Map sono rimasti chiusi e quindi inutilizzati perché sono stati consegnati a persone che trascorrono a Campotosto solo poche settimane all’anno, per villeggiatura. Decido di verificare e, infatti, quando arriviamo è evidente che alcuni moduli sono ancora sommersi di neve e se ne vede solo il tetto, ma su una ventina non saranno più di tre o quattro. “Qua è così”, mi dice Alessandro, un ragazzo che sta continuando a spalare davanti al suo Map. “Sono tutti buoni a lamentarsi e nessuno capisce che in queste situazioni bisogna arrangiarsi da soli. Siamo in montagna, è normale che nevichi, dobbiamo essere pronti”.

La piazza principale di Campotosto, 21 gennaio 2017. (Antonio Di Cecco, Contrasto)

Scambiamo quattro chiacchiere con le poche persone che prendono una boccata d’aria nel vialetto scavato. Ci dicono che la bufera è arrivata il 17 gennaio e che sono rimasti bloccati fino alla mattina del quando sono stati raggiunti da un “bruco” dell’esercito che ha portato dei viveri. Per quattro giorni invece si sono arrangiati. Mentre parliamo e Antonio scatta foto, all’improvviso siamo letteralmente investiti da un branco di cani segugio italiani, sembrano impazziti, corrono senza sosta. Sono rimasti seppelliti dalla neve nelle loro cucce per cinque giorni e solo oggi, ci dicono i proprietari, sono riusciti a liberarli. Sono gioia allo stato puro, e il mio pensiero per un attimo va dall’altro lato del Gran Sasso, a Rigopiano.

Di nuovo in piazza, la situazione è ancora animata. I vigili del fuoco si stanno adoperando per entrare nel comune e contemporaneamente per liberare la piazza. Tra le persone presenti individuo un ingegnere, tecnico incaricato della ricostruzione di uno degli aggregati che danno sulla piazza. Si chiama Livio Ponzi. Gli chiedo quali danni aveva subito Campotosto dopo il 2009 e come pensa si siano aggravati ora. Dopo il terremoto dell’Aquila, mi dice, il 50 per cento delle abitazioni era inagibile e la quasi totalità dei lavori non era neanche cominciata. Con le scosse del 2016 la situazione è peggiorata ma non tantissimo, ora invece, a suo parere, il 70-80 per cento delle case ha danni gravi, la situazione è drammatica.

E questo non solo da un punto di vista strutturale, anche burocratico. Mi spiega, infatti, che gli aggregati su cui lavora hanno seguito l’iter del decreto legge 39 del 2009 e che, dopo cinque anni, finalmente si era riusciti a sbloccare le pratiche. Con il terremoto del centro Italia, invece, essendo rientrato nel nuovo cratere sismico anche il comune di Campotosto, le procedure dovrebbero ricadere automaticamente sotto la nuova normativa di ricostruzione (decreto legge numero 189 del 2016, articolo 13) i cui decreti attuativi, però, devono essere ancora emanati. Il rischio, inconcepibile, è di aver solo perso tempo e di vedere così il suo lavoro sfumare. “È assurdo, dovremmo ricominciare con la formazione dei consorzi, con i progetti, con le richieste di finanziamenti, ma perché non possiamo continuare a usare la vecchia normativa?”.

Una tavola poggiata sulla neve
Sono le 14.00 ormai, dobbiamo ancora andare a Mascioni e non sappiamo in quali condizioni sia la strada. Lo scopriamo subito. Oltre due metri di neve ai lati dell’unica carreggiata. Incrociare un’auto in direzione opposta significa fare retromarcia fino all’ultimo spiazzo creato dalla turbina proprio per queste evenienze. E di auto ne incontriamo, sono gli slarghi a mancare. Inoltre sta cominciando di nuovo a nevicare e la visibilità è scarsa. Incrociamo anche due cinghiali che scappano inerpicandosi nella parete fresca. A tratti la neve si abbassa di colpo rivelando la superficie del lago che, ghiacciato, è un’immensa distesa bianca immacolata. Fosse un’avventura, sarebbe magnifica.

Superato il ponte che unisce le rive più vicine del lago, sulla destra dovrebbe esserci un ampio slargo perimetrato da uno steccato, dozzine di tavolini e la piccola struttura in legno di La Chioscheria, un bar gestito da ragazzi originari di Mascioni che, pur restando aperto solo durante i mesi più miti, garantisce a residenti e turisti un punto di ritrovo sulla riva del lago e una grande iniezione di vitalità. Di tutto questo non rimane che il tetto, che pare una tavola poggiata sulla neve.

A Mascioni ci attende Mino, il proprietario del ristorante Mausonium, che solo oggi è riuscito a ricevere le forniture necessarie per riaprire. Alle porte del paese ci sono i Map e poco vicino una baita di legno, è qui che si sono raccolti i cinquanta abitanti rimasti su 189 residenti. Una colonna di mezzi della protezione civile ci impedisce di avanzare. Sulle divise gialle fluorescenti leggo Onano, Cantù, Milano. Hanno carichi di provviste e una piccola turbina per pulire i vicoli del paese. Li lasciamo alle loro operazioni, ma sembrano spersi, come se non sapessero dove si trovano né cosa fare. Confabulano, si sbracciano, la loro vera risorsa, la vera direttiva che sembrano seguire è la forza di volontà.

Moduli abitativi provvisori (Map) a Campotosto realizzati dopo il terremoto del 2009. La foto è stata scattata il 21 gennaio 2017. (Antonio Di Cecco, Contrasto)

A Mascioni solo due strade sono pulite, quella che porta in piazza e quella per il Mausonium. Antonio, che vorrebbe controllare che tipo di danni ha subìto la casa di suo nonno, è ostacolato da un ammasso di neve alto due e lungo un centinaio di metri. Così proseguiamo, anche se a fatica, lungo la strada che si fa più ripida. Ci fermiamo davanti a una ruspa che solo qualche ora fa deve aver rimosso la neve. Cappello di lana, barbone incolto e braccia aperte, così ci accoglie Mino. Con lui c’è la cuoca che subito si giustifica per lo stato del locale (pavimento un po’ sporco e solo qualche coccio di vetro sparso qua e là) e per il menù limitato, dovremo accontentarci. Sono le 15.30, abbiamo fame, comincia a fare freddo, ha ripreso a nevicare e ciò di cui ci dobbiamo accontentare è una sala riscaldata dal camino, coratella come antipasto, pane fresco, ottimo vino, porzioni abbondanti di pasta alla gricia e di succulento agnello allo scottadito. Per essere in piena emergenza, non ci è andata affatto male.

Tra una portata e l’altra chiedo ad Antonio di Mascioni e lui mi racconta delle estati qui trascorse in adolescenza tra giochi, feste e l’appassionante vita di suo nonno. Come quando riuscì a sfuggire alla guardia forestale, che intendeva multarlo per pesca di frodo, dileguandosi tra le colline. Tornò a casa, si cambiò d’abito e si mescolò alla folla che nel frattempo si era riunita per curiosare. Gli occhi di Antonio brillano, il suo consueto aplomb scompare, si abbandona a sorrisi trasognati.

Finito di pranzare, strappiamo a fatica Mino dal telefono (lo chiamano i mascionari scappati e quelli che qui hanno una casa per sapere qual è la situazione delle strade e che danni ci sono stati) e davanti una genziana ci mettiamo a parlare di Mascioni. D’estate il paese si riempie, un migliaio le presenze. Si affittano case, si organizzano escursioni sui monti della Laga, mercatini d’antiquariato, addirittura un campionato nazionale di ottava rima, ma soprattutto si celebrano le feste. La principale è quella del Beato Andrea, una processione che si svolge l’ultima domenica di maggio quando gli abitanti di Mascioni scendono fino a Montereale e lì organizzano un grande banchetto. Anche a Montereale si organizza una processione simile e qui il racconto si mescola alla leggenda, fino a culminare nel sangue; pare infatti che la diatriba tra i due paesi per rivendicare la paternità del Beato più d’una volta sia culminata in rissa.

Mino è una persona speciale, conosce benissimo la storia di questi luoghi e si potrebbe parlare con lui per ore, ma fuori ormai è quasi buio e dobbiamo andare. Per un’ora buona il terremoto, la neve sono scomparsi e Mascioni, anche se solo attraverso racconti del passato, mi è parso vivo. Paghiamo venti euro a testa. Mino insiste per accompagnarci all’auto. Per salutarlo propongo un abbraccio e lui accetta felice. Antonio ha un’espressione soddisfatta. Potrebbe essere sopraffatto dalla malinconia, invece, quel che esprime è fierezza.

Dalla statale alla provinciale
Per il ritorno scegliamo di passare per la statale 80. Non sappiamo se la strada sia pulita, soprattutto il tratto regionale della 577 che si congiunge alla statale, ma rischiamo e ci va bene. Al lavoro ci sono due turbine e certamente per domani la circolazione tornerà normale. La questione dello sgombero della neve me l’ha spiegata la sera prima di partire Rinaldo D’Alessio, titolare dell’azienda zootecnica La Mascionara, che ha sede proprio in questa strada. “A 1.400 metri la neve non può essere un’emergenza”, mi dice Rinaldo, “il vero problema è burocratico perché dalla statale 80 alla 577 la gestione passa dall’Anas alla provincia e tutto quello che riguarda la provincia è un disastro, perché hanno la responsabilità ma non i fondi per intervenire”. Avrei voluto incontrarlo per approfondire il discorso, purtroppo però oggi è dovuto andare a Teramo per stare vicino a un suo dipendente, Ivan, figlio e fratello di Claudio e Mattia Marinelli, morti per il maltempo a Poggio Umbricchio nel tentativo di rifornirsi di viveri e medicine, e non “per andare a prendere pizze”, come erroneamente riportato dall’Ansa.

Mentre scrivo si rincorrono allarmi, quello, poi smentito, per la diga del Fucino a Campotosto dove si potrebbe verificare “un nuovo Vajont” e quello, ben più preoccupante, per il rischio di nuove violente scosse di terremoto del sesto o settimo grado, che potrebbero causare altra distruzione, perfino all’Aquila. Non c’è da stare sereni, eppure, in certo qual modo, lo sono. Sto in allerta certo, ma sereno. Il terremoto porta distruzione e morte, ma non intacca i paesaggi, non logora le tradizioni, non cancella la memoria. Se allo stato tocca il compito di ricostruire le abitazioni e favorire la ripresa economica, a noi ne spetta, sono certo, uno non meno gravoso, la ricostruzione culturale e sociale della nostra terra. Come Campotosto, ogni singolo paese dell’immenso cratere sismico rischia di perdere la sua primaria fonte di ricchezza, la sua identità. Tocca principalmente a ognuno di noi lottare per evitarlo, ma lo stato in questo deve essere nostro alleato.

Voglio chiudere con questo video, semplice ma ben fatto, su Campotosto, il lago e il suo territorio. Nessuna delle meraviglie che mostra può perdersi se non per colpa nostra.

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