21 giugno 2021 12:23

Per mesi nella Repubblica di San Marino un gruppo di donne ha lavorato incessantemente per un referendum che potrebbe portare a una svolta storica: legalizzare l’aborto nel paese. Il piccolo stato di circa 33mila abitanti tra Emilia-Romagna e Marche è uno dei pochissimi in Europa – insieme a Malta, Gibilterra, Andorra, Città del Vaticano e alla Polonia, che di recente ha introdotto un divieto quasi totale – in cui interrompere una gravidanza è reato.

Il codice penale prevede una pena dai tre ai sei anni di reclusione – per la donna che abortisce e per chiunque partecipi – a prescindere dalle ragioni della scelta: anche in caso di stupro o di gravi malformazioni fetali.

Nel febbraio 2021 l’Unione donne sammarinesi (Uds) ha proposto il quesito referendario che il 15 marzo il collegio garante della costituzionalità ha dichiarato ammissibile. Da allora l’organizzazione ha messo su banchetti ed eventi in piazze, bar e punti di ritrovo sul territorio. Il quesito chiede di legalizzare l’aborto entro le dodici settimane, e oltre questo termine se c’è un pericolo di vita per la donna o se ci sono gravi malformazioni del feto. La raccolta è finita il 31 maggio (in anticipo rispetto a quanto previsto) e lo stesso giorno una delegazione dell’Uds ha consegnato le firme autenticate.

“Sono 3.028, molte di più di quelle che ci servivano. Siamo fiduciose”, spiega Elena D’Amelio Mueller, del comitato esecutivo dell’Uds. Il 10 giugno il collegio garante ha validato le firme e quindi le organizzazioni attendono solo che venga fissata la data del voto. Così com’è accaduto in Irlanda nel 2018, la conquista del diritto ad abortire potrebbe passare per la volontà popolare.

Non tutte possono pagare
La vicinanza con l’Italia, dove l’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) è legale dal 1978, ha fatto sì che a San Marino il divieto resistesse negli anni senza fare troppo rumore: nessuna sammarinese è stata condannata nella storia recente, le donne si sono spostate a Rimini o nel resto della Romagna per abortire in segreto e a pagamento. Anche se su questo non esistono statistiche e nessuno prova a raccogliere dati.

“Il prezzo da pagare è piuttosto alto”, spiega la dottoressa Francesca Nicolini, responsabile del centro salute di Serravalle, una delle unità amministrative in cui è divisa San Marino. “Per una sammarinese abortire in una struttura sanitaria italiana può costare circa duemila euro. Ma soprattutto diventa tutto molto complicato”.

Secondo Nicolini uno dei motivi per cui finora la cosa è stata trascurata è che “a San Marino c’è sempre stato un certo benessere economico” che ha permesso di affrontare le spese per chi non è a carico del sistema sanitario italiano. “Ora però il problema diventa serio perché non è vero che tutti possono permettersi certe cifre. Questo incentiva gli aborti clandestini, sempre oltreconfine, in strutture in cui magari ti fanno pagare meno”.

Scelte difficili e ipocrisie
Pochissime donne sono disposte a parlare della propria esperienza di aborto, anche in forma anonima, e molte non lo fanno nemmeno con le persone più vicine a loro: spaventate dalla possibilità d’incorrere in un reato, si affidano alla garanzia di anonimato prevista dalla sanità italiana per le cartelle cliniche.

“Avevo 31 anni, rimasi incinta ed ero felice. Ma mi fecero l’amniocentesi e scoprirono che il bambino aveva la sindrome di down e forse altre complicazioni. Fu durissima. La dottoressa mi aiutò, mi spiegò che a San Marino l’aborto è illegale e mi consigliò dove andare, ovviamente oltreconfine. Dovetti pagare tutto, anche la visita necessaria dallo psicologo”, racconta Martina (nome di fantasia). “Le spese non furono eccessive. Però sapevo che nel mio paese la mia scelta era considerata un reato e che quindi non ne potevo parlare con nessuno. Sono passati diversi anni, ora almeno riesco a raccontarlo, ma trovo gravissimo che ancora oggi non ci siano possibilità per chi si dovesse trovare nella mia condizione di allora”.

San Marino, 22 maggio 2021. A sinistra: la dottoressa Francesca Nicolini nel suo ambulatorio; a destra: Vanessa Muratori dell’Unione donne sammarinesi. (Michele Lapini per Internazionale)

Valentina, che preferisce non rivelare il suo cognome, ha 35 anni e una bambina piccola, nata dopo una gravidanza durante la quale non ha potuto effettuare esami e diagnosi prenatale per ragioni mediche. Ha firmato con convinzione per il referendum proprio pensando alla sua esperienza recente. “Non ho mai saputo se la mia bambina stesse bene, ho cercato di non pensarci, anche quando c’è stato un rischio per la mia salute. Quando poi è nata ho riflettuto tantissimo: ero stata fortunata, ma se non fosse andata così?”, dice. “Avrei dovuto fare delle scelte sapendo che lo stato dove vivo mi avrebbe guardata come una criminale. Lo trovo assurdo e colpevolizzante. Oltre che ipocrita: per assecondare chi vuole che San Marino rimanga il baluardo di una cristianità arcaica si sposta il problema a Rimini”.

Secondo la dottoressa Nicolini le donne più giovani sanno perfettamente come comportarsi: “Vanno nei consultori italiani, come se fosse normale non poterlo fare nel proprio paese. Qualche mese fa ho telefonato a una ragazza per comunicarle l’esito positivo del suo tampone per il covid-19. Mi ha detto candidamente che era un problema, perché l’indomani sarebbe dovuta andare ad abortire in Italia”. Il fatto che negli anni i governi sammarinesi abbiano chiuso gli occhi di fronte al problema comporta però una situazione “non sostenibile da un punto di vista di salute pubblica”, afferma Nicolini. “Non sappiamo niente: non abbiamo dati su quante persone abortiscono, sul perché lo fanno o sul perché sono rimaste incinte, se c’è una percentuale di malformazioni. E dunque non si possono programmare politiche. Ci sono solo statistiche sugli aborti spontanei, il resto del problema non esiste. Siccome nessuno ne parla, allora nessuno abortisce a San Marino”.

Un dibattito ricorrente
La prima proposta di legge per legalizzare l’aborto a San Marino risale al 2003, presentata da Vanessa Muratori, ex consigliera di Sinistra unita. “Ci sono rimasta male perché c’è stata molta timidezza da parte sia della sinistra sammarinese sia del sindacato”, ricorda. “Mi sono chiesta spesso come mai, e credo che oltre alla mentalità chiusa di un piccolo stato e all’influenza forte della chiesa, ci sia anche un po’ di diffidenza verso la capacità di scelta delle donne”.

Nonostante la vicinanza con l’Italia, “e nonostante certe battaglie in comune sui diritti, compresi quelli femminili, San Marino è rimasta molto indietro su tanti fronti”, spiega Maria Lea Pedini, che nel 1981 fu la prima donna a essere nominata capitano reggente (capo del governo) con il partito socialista sammarinese. Nel 1978 era stata la terza donna eletta nel consiglio grande generale, il parlamento sammarinese. Solo nel 1973 era stata emanata una legge che permetteva alle donne “di assumere cariche, impieghi e funzioni pubbliche”.

Un banchetto per il referendum sull’aborto nell’Ospedale di Stato di San Marino, 26 maggio 2021. (Michele Lapini per Internazionale)

Nello stesso anno in cui Pedini veniva eletta, in Italia veniva approvata la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. “Mentre da voi si legalizzava l’aborto, a San Marino eravamo impegnate in altre battaglie per far avanzare la nostra società. Per esempio quella per l’istituzione degli asili nido, con una legge che arrivò solo nel 1980, o quella sui consultori, che abbiamo perso”, racconta Pedini, che sostiene il referendum dell’Uds. Tra gli impegni maggiori c’era quello sulla cittadinanza, che le sammarinesi perdevano se sposavano un cittadino di un altro stato: nel 1982 fu proposto un referendum per cambiare le cose, ma fu respinto; nel 1984 fu approvata una legge che consentiva anche alle donne di conservare la cittadinanza purché non avessero espresso la volontà di prendere quella del coniuge straniero.

Dopo la proposta del 2003 per legalizzare l’aborto, ci sono stati altri due progetti di legge e sette istanze d’arengo, un istituto di democrazia diretta che permette a ogni cittadino di rivolgere una richiesta ai capitani reggenti su un tema di interesse generale. Alcune istanze sono state approvate dal parlamento, che però non le ha trasformate in legge.

L’ultima proposta – un progetto di iniziativa popolare – risale al 2019 ed è stata avanzata dal Comitato promotore della legge sulla procreazione cosciente e responsabile, che successivamente ha cambiato nome recuperando quello dell’Uds, protagonista delle battaglie degli anni settanta. L’iter si è però bloccato. “Quando abbiamo provato a sollecitare il governo ci è stato detto che la commissione attendeva un parere del comitato bioetico, che però non è un adempimento previsto per legge”, spiega Rosa Zafferani, un passato da politica nell’area più riformista della Democrazia cristiana di San Marino e oggi attivamente impegnata nella raccolta delle firme per il referendum. “A quel punto abbiamo capito chiaramente che era una scusa e abbiamo deciso di muoverci per sbloccare la situazione”.

L’influenza della chiesa
Secondo Muratori quello sull’aborto è un discorso che ciclicamente viene a galla. “Ma non siamo mai riuscite ad avere spazio o a uscire da un dibattito dai toni apocalittici”, spiega.

L’influenza della chiesa è stata rilevante. Il partito di maggioranza relativa in parlamento è la Democrazia cristiana, che nel programma di governo ha inserito la tutela della vita dal concepimento e la contrarietà all’aborto. Vicino al partito è Uno di noi, il comitato contrario al referendum, nato tre giorni prima della consegna delle firme raccolte dall’Uds.

Zafferani ritiene che le forze di maggioranza potrebbero essersi “agitate nel vedere così tante persone sottoscrivere il quesito referendario. Tra loro non ci sono solo quelle notoriamente di sinistra o aperte nei confronti dei diritti civili, ma anche molti elettori democristiani”.

A San Marino “c’è una rappresentanza politica che non rispecchia la società civile, mentre elementi legati all’integralismo cattolico sono sovrarappresentati dai mezzi di informazione”, afferma Muratori. “Un sacerdote ci ha paragonate ai nazisti della seconda guerra mondiale. Ma molte persone la pensano diversamente, specialmente tra i più giovani”.

La speranza delle promotrici del referendum è che queste persone poi vadano a votare. “Sentiamo che la maggior parte della cittadinanza è con noi. Sono venute persone di ogni età a firmare”, dice D’Amelio Mueller dell’Uds. “Sono state le più giovani e i più giovani a trainare la raccolta. È come se dessero per scontato che le donne devono potersi autodeterminare: quasi non riuscivano a credere che l’aborto fosse ancora illegale a San Marino e per questo hanno firmato in massa”.

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