Quando all’inizio di novembre si è resa conto di essere incinta, Alessandra (nome di fantasia), 24 anni, si è messa a cercare online come abortire. La prima cosa che ha scoperto è stata che a Fermo, nelle Marche, dove abita con i genitori, tutti i ginecologi sono obiettori di coscienza. “Su internet avevo letto che per prima cosa dovevo andare al consultorio a chiedere un certificato per l’interruzione volontaria di gravidanza”, racconta. Il consultorio più vicino a Fermo è quello di Porto San Giorgio, dove le hanno fissato un appuntamento con una ginecologa dell’ospedale. All’ora di pranzo del giorno successivo, però, Alessandra si è resa conto di non sentire più gli odori.
“Ho fatto un tampone rapido e sono risultata positiva al covid-19. Tutta la mia famiglia lo era: mia madre fa l’insegnante, probabilmente l’ha preso a scuola e poi ci siamo contagiati tutti”, spiega. Al telefono la ginecologa con cui aveva appuntamento le ha detto di aspettare due settimane e un tampone negativo. Alessandra ha cominciato ad agitarsi: non aveva ancora fatto nemmeno una visita, non sapeva da quante settimane era incinta e trovare informazioni sulle procedure in caso di aborti su donne positive sembrava impossibile.
“Per quasi due settimane io e i miei genitori abbiamo contattato tutti i consultori e gli ospedali della regione”, ricorda. Un operatore dell’ospedale di Macerata le ha detto al telefono che una donna positiva al covid aveva abortito chirurgicamente poco tempo prima a Pesaro. Dopo diversi giri di telefonate, Alessandra è riuscita a ottenere un appuntamento per la visita ginecologica. “Sono andata a Pesaro con la macchina, sono 140 chilometri da Fermo. Ero ancora positiva e con sintomi. Mi hanno dato un appuntamento e dopo due giorni sono tornata per fare l’interruzione chirurgica”, racconta. A metà dicembre Alessandra era ancora positiva al tampone. “Non so come sarebbe finita se avessi davvero aspettato, se non avessi avuto un’auto o una famiglia che mi aiutava. Quello che mi ha spaventata di più è stato trovarmi da sola senza sapere a chi rivolgermi?”.
Richieste rifiutate
Durante la prima ondata di contagi, diverse associazioni avevano denunciato che l’accesso al servizio di interruzione volontaria di gravidanza (ivg) era diventato molto più difficile, tra reparti chiusi, limitati o trasferiti e scarsità di informazioni. Con la ripresa e l’aumento dei casi in autunno sono tornati anche i problemi nell’accesso all’aborto. Una situazione che riguarda un po’ tutta Italia, a macchia di leopardo, e che si somma all’alto tasso di obiettori di coscienza tra i ginecologi.
“Aspettare che una donna incinta si negativizzi è impensabile. In Umbria per esempio non esiste un percorso o una struttura che faccia abortire le pazienti positive. E in quel caso che fai? Aspetti o emigri”, dice Marina Toschi, ginecologa che lavora in Umbria e fa parte di Pro-choice Rete italiana contraccezione aborto. Toschi ha visto “almeno due o tre casi di donne a cui è stata negata l’ivg perché positive al covid-19. Gli hanno detto di aspettare un paio di settimane. In un caso la gravidanza era vicina al termine massimo di novanta giorni entro i quali è consentito abortire, ed è andata avanti”.
All’indirizzo email del gruppo femminista Obiezione Respinta negli ultimi mesi sono arrivate molte richieste di donne positive al covid-19 (o che temevano di esserlo) che volevano sapere cosa fare per abortire o raccontavano di essere state rifiutate dagli ospedali.
Diverse segnalazioni sono arrivate anche all’associazione Vita di Donna, che a Roma ha assistito una donna che “era stata mandata via da due ospedali perché il suo tampone era positivo. Le hanno detto che non erano attrezzati per fare interruzioni volontarie di gravidanza in questi casi”, racconta la ginecologa Elisabetta Canitano. Secondo la dottoressa, però non servirebbero protocolli speciali, essendo l’ivg non differibile, come ha stabilito il ministero della salute lo scorso marzo: “L’aborto è un’attività sanitaria. Se esiste un protocollo per incidere un ascesso in sala operatoria, dovrebbe valere anche per l’ivg, che è un’urgenza per definizione”.
Nuove regole rimaste sulla carta
Le difficoltà riguardano anche l’aborto farmacologico con la pillola RU486, introdotto in Italia nel 2009 ma ancora utilizzato appena nel 20,8 per cento dei casi. Eppure lo scorso agosto il ministero della salute ha aggiornato le linee di indirizzo cancellando l’obbligo di ricovero ed estendendo il limite da sette a nove settimane, così come negli altri paesi. Tra l’altro secondo le nuove linee di indirizzo la pillola avrebbe il vantaggio di poter essere somministrata in consultorio e in ambulatorio, in modo da decongestionare gli ospedali in questa fase di emergenza sanitaria.
Le regioni che hanno formalizzato il recepimento delle nuove linee di indirizzo sono però pochissime: la maggioranza le ha ignorate e non si è preoccupata neanche di stabilire il tipo e le modalità di rimborso da parte del servizio sanitario nazionale. In alcune, come il Piemonte e le Marche, si è discusso o si discute se disattenderle. Le operatrici denunciano inoltre che la massiccia obiezione di coscienza e le difficoltà che i consultori devono affrontare ogni giorno hanno fatto sì che la situazione non sia cambiata molto.
Gli ospedali che già offrivano l’aborto farmacologico in day hospital si sono adeguati estendendolo a nove settimane. Il problema è che non sono molti. “Io le donne le mando tutte in Toscana, perché qui in Umbria è praticamente impossibile. Così anche per l’aborto farmacologico si finisce per emigrare, fare viaggi di decine di chilometri”, denuncia Toschi.
Simona (nome di fantasia) è una delle tante donne che negli ultimi mesi sono state costrette a spostarsi per accedere all’aborto farmacologico, seppur all’interno della sua regione. Si è accorta di essere incinta a novembre e anche lei ha scoperto che nella sua zona, un agglomerato di comuni intorno a Cernusco sul Naviglio, nei dintorni di Milano, non esistono ospedali che effettuano ivg, né consultori che rilasciano il certificato per accedere al servizio.
“Ogni persona con cui parlavo mi dava numeri di altri. Molti mi dicevano di essere obiettori. Sono dovuta andare in un consultorio in provincia di Bergamo, a Osio Sotto per la precisione, per poter fare almeno il certificato per l’ivg”, racconta. Tornata a casa, Simona ha cominciato a chiamare gli ospedali.
“All’ospedale di Vimercate mi hanno dato appuntamento solo per consegnare il certificato dopo due settimane. Ero già alla quinta, avevo paura di non arrivare in tempo”, ricorda. Ha continuato a cercare e alla fine è riuscita ad avere un appuntamento a Crema, a 40 chilometri da casa.
“Sono andata in tutto quattro volte: ho portato i documenti, poi sono tornata per fare il tampone, è risultato negativo e il giorno dopo sono tornata per fare gli esami e prendere la prima pillola in day hospital. Sono andata poi su appuntamento dopo qualche giorno per prendere il secondo farmaco”, spiega Simona. “All’ospedale di Crema mi sono trovata bene. Ma è assurdo dover percorrere 40 chilometri. Io avevo i mezzi per farlo, ho internet, ho mio marito, sono riuscita a muovermi. Ma una persona in difficoltà come fa? E se fossi stata positiva?”.
Eleonora, attivista di Obiezione Respinta, ritiene che questa situazione danneggi maggiormente le donne più povere: “Si dà per scontato che le persone abbiano un’auto propria, la possibilità di prendersi quattro giorni di permesso dal lavoro per spostarsi. E poi i tempi lunghi fanno sì che spesso le donne abortiscano vicino al termine per farlo. Non è di poco conto: l’aborto non è rinviabile”.
L’aiuto della telemedicina
Una possibilità per accorciare i tempi ed eliminare i viaggi potrebbe essere l’aborto in telemedicina, ossia un’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico a casa, assistita dal medico a distanza, tramite videoconferenze o telefonate. Una pratica riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della sanità tra quelle utili per garantire i servizi sanitari essenziali.
Durante la prima ondata della pandemia di covid-19, per far fronte alle difficoltà causate dall’emergenza sanitaria alcuni paesi, come Inghilterra, Galles, Scozia e Francia, hanno introdotto questa modalità. In altri, per esempio in Svezia e in Danimarca, è già praticata da anni.
A distanza di mesi dall’inizio della sperimentazione, i ginecologi britannici hanno affermato che la telemedicina ha allargato l’accesso al servizio, ha ridotto i tempi in cui normalmente venivano interrotte le gravidanze e ha evitato grossi spostamenti durante la pandemia. Quando possibile, le donne hanno scelto l’aborto telemedico a casa: lo scorso aprile le interruzioni di gravidanza non chirurgiche sono aumentate moltissimo, e alla fine di giugno avevano superato la metà del totale.
Ho provato a contattare alcuni consultori. Forse ho trovato solo obiettori, ma mi hanno trattata come un’assassina
In Italia si discute da tempo di telemedicina, e recentemente l’assistenza da remoto è entrata a far parte del Servizio sanitario nazionale. Tra le prestazioni previste, ci sono la televisita, il teleconsulto medico, la teleconsulenza medico-sanitaria, la teleassistenza, la telerefertazione. Ma non l’interruzione volontaria di gravidanza.
Eppure già ad aprile 2020, quando sono emersi i primi problemi con il servizio di ivg, la Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) aveva raccomandato di estendere l’aborto farmacologico prevedendo una procedura “totalmente da remoto, monitorizzata da servizi di telemedicina”.
Secondo Toschi, “è l’opzione più logica in vista di un altro anno di covid-19. Perché continuare a mandare la gente in ospedale, dove rischia di ammalarsi? Molte donne vorrebbero prendere le pillole a casa, lo chiedono. La resistenza è ideologica: come sempre si teme di dare troppa libertà alle donne. Ma in questo modo l’unica cosa che si ottiene è incoraggiare il ricorso all’aborto clandestino”.
Una delle prime esperienze di ivg in telemedicina è Women on Web, un’organizzazione non profit fondata nel 2005 dall’attivista olandese Rebecca Gomperts che si occupa di gestire il servizio fuori dalle legislazioni nazionali, nei paesi in cui l’ivg è fortemente limitata o illegale. Sul sito sono predisposti dei questionari che le utenti compilano e che poi vengono valutati dalle ginecologhe dell’organizzazione. In assenza di controindicazioni, le dottoresse prescrivono le pillole, le inviano via posta e poi monitorano telematicamente le pazienti fino alla fine del percorso.
Durante l’emergenza sanitaria le richieste a Women on Web sono aumentate drasticamente in tutto il mondo. Anche in Italia dove, secondo una ricerca dell’Università del Texas ad Austin sull’accesso all’ivg durante la pandemia, dal 10 marzo c’è stato un incremento del 68 per cento dei contatti al sito rispetto a quanto ci si sarebbe aspettato. “Crediamo che dipenda dal fatto che abortire è diventato più difficile durante la pandemia, perché le persone non potevano viaggiare o andare in ospedale senza rischiare di contagiarsi”, spiega Abigail Aiken, autrice dello studio.
Quando chiamano donne da paesi come l’Italia, dove l’aborto non è illegale ma ci sono difficoltà, le operatrici chiedono sempre perché si rivolgono a loro e non seguono i percorsi istituzionali: “Quasi sempre si tratta di problemi legati agli alti tassi di obiezione di coscienza in alcune zone o questioni personali, come un partner abusante, ragioni economiche e l’impossibilità di perdere un giorno di lavoro”, dice un’attivista che gestisce l’help desk italiano e vuole rimanere anonima. Nel 2019, secondo i dati raccolti da Women on Web, sono state 473 le donne che si sono rivolte al servizio online: il 47,3 per cento non volevano confessare l’aborto alla loro famiglia, il 19,1 non poteva lasciare da soli i figli, il 17,8 aveva problemi a saltare il lavoro o la scuola.
“Ho provato a contattare alcuni consultori nella mia zona. Tentativi vani. Forse ho trovato solo obiettori di coscienza, ma mi hanno trattata come un’assassina, dicendomi che ero in ritardo per l’aborto farmacologico e che non facevano quello chirurgico. Hanno insistito talmente tanto che tornata a casa mi sono sentita davvero un’assassina e ho chiesto un supporto psicologico”, si legge in una delle email arrivate alla piattaforma. Un’altra donna ha scritto di essersi rivolta a loro perché era impossibile lasciare i suoi figli per un giorno intero, avendo anche un figlio disabile di 13 anni. Altre testimonianze: “Sono sola e disperata. Senza lavoro e con mia madre gravemente malata. Non posso andare lontano da casa e non so davvero cosa fare. Per favore aiutatemi”; “L’ospedale è lontano da dove vivo e non ho mezzi di trasporto”; “Sono incinta, disoccupata e agli arresti domiciliari”; “Mio marito e la sua famiglia sono molto religiosi, non possono sapere che voglio abortire”.
Negli ultimi mesi, spiega l’attivista di Women on Web, “il problema è stato il covid-19: molte ci hanno detto che erano positive, non potevano uscire oppure l’ospedale aveva sospeso il servizio. Così si sono rivolte a noi”.
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