15 aprile 2020 10:36

L’inizio di ogni grande emergenza è confuso e frammentario, ma l’effetto è sempre quello: la normalità ne esce completamente stravolta. Di punto in bianco, è come se venisse tracciata una linea invalicabile tra il prima e il dopo.

Per Vo’, un piccolo paese ai piedi dei colli Euganei in provincia di Padova, quella linea è stata tracciata nel penultimo fine settimana del febbraio 2020. Più esattamente, tra venerdì 21 e sabato 22.

Auro Michelon, un architetto di 36 anni che abita a Padova, ci si è trovato dentro quasi per caso. In quel periodo faceva la spola tra il capoluogo di provincia e Vo’, dove vivono i suoi genitori: siccome erano momentaneamente all’estero, lui badava alla casa e si occupava del cane e dei gatti. Non appena le voci di un possibile blocco si erano fatte più insistenti, ha deciso di partire da Padova verso la mezzanotte del 21 febbraio. “Ero preoccupatissimo”, ricorda.

Quando i mezzi d’informazione hanno parlato dei primi casi di coronavirus e della morte di Adriano Trevisan, storico abitante di Vo’ e prima vittima del covid-19 accertata in Italia, Moira Biasio invece era dentro la sua camiceria nel centro del paese. “Nel giro di pochi minuti ci siamo trovati qui i giornalisti e in seguito ho dovuto chiudere l’attività senza capire cosa stesse succedendo”, racconta. “Era tutto surreale”.

Giorgio Carpanese, un operaio in pensione, stava tornando in auto da Ferrara ed è stato avvertito dai suoi amici. Una volta rientrato “ho sentito il sindaco, un mio amico, loro l’hanno saputo il pomeriggio avvertiti dal prefetto. Erano stati presi alla sprovvista quanto noi”.

Mariachiara Peron – 35 anni, di Padova, trasferitasi da qualche anno nella frazione di Vo’ Vecchio – ha letto le agenzie dell’Ansa mentre si trovava in ufficio. “Lì per lì ho pensato che non fosse vero, e che probabilmente non avevo letto bene”, spiega. “La prima sensazione è stata di totale incredulità, anche se non so perché”. Poi, domenica 23 febbraio, un vicino è stato portato via da un’ambulanza. “Quello è stato il momento in cui ho realizzato che qualcosa di grave e importante stava succedendo”.

Nell’arco di 24 ore, Vo’ era ufficialmente diventato il focolaio locale di una pandemia globale. E anche se allora non poteva saperlo nessuno, sarebbe anche diventato un caso di studio unico al mondo.

Il contagio
Se non si è nati in quelle zone o non si frequentano i colli Euganei, è abbastanza difficile conoscere l’esistenza di Vo’. Per dare un’idea di massima, questo paese di circa 3.300 abitanti è costellato da ristoranti, agriturismi e cantine che producono vino – quasi il 50 per cento del dop dei colli Euganei è prodotto lì. C’è anche una piccola zona artigianale, composta da aziende che lavorano per il settore vitivinicolo e tessile.

È un paese di campagna attraversato da una strada provinciale, insomma, dove la vita è molto tranquilla e piuttosto ritualizzata. “Lo definirei un luogo fuori dal mondo, in senso positivo”, dice Peron, “in cui la storia è ferma da un po’ di tempo”. Le quattro frazioni di cui è composto Vo’ lo rendono un agglomerato abbastanza eterogeneo, che ha comunque molti tratti in comune con altre realtà di provincia.

Laura, 50 anni, lavora come cassiera in un supermercato a Vo’, aprile 2020. (Matteo de Mayda per Internazionale, Contrasto)

La comunità, dicono tutti, è molto coesa. “Siamo sempre stati un paese unito”, puntualizza Biasio, “si cerca di darsi una mano l’uno con l’altro”. Andrea Lucchini, ex calciatore e personal trainer, lo descrive così: “Sicuramente è il classico paese dove girano le notizie, dove tutti sanno tutto un po’ di tutti”. Per Carpanese, le relazioni sociali si sviluppano principalmente nel weekend, “quando la gente ha finito di lavorare e si trova nei soliti locali, nelle solite pizzerie e nei soliti bar”.

Ed è proprio da un bar di Vo’ centro, almeno secondo le ricostruzioni preliminari, che è cominciato il contagio. Trevisan e un altro amico – anche lui risultato positivo e morto – frequentavano lo stesso locale. Come ha dichiarato a Repubblica la figlia Vanessa Trevisan, che è stata anche sindaca, il padre “si divideva tra la casa e il bar, dove giocava a carte. Non andava in gita, non andava in chiesa o alle bocce, gli piaceva pescare”. E naturalmente, non era stato in Cina.

L’arrivo dell’epidemia a Vo’, che potrebbe essere retrodatata alla fine di gennaio 2020, rimane però un mistero. La stampa e le autorità sanitarie hanno battuto diverse piste, tra cui quella dei pochi residenti cinesi (risultati negativi) o del collegamento con il focolaio di Codogno in Lombardia (mai trovato). Anche tra gli abitanti sono circolate numerose ipotesi: c’è chi dice che Trevisan si sia preso il virus all’ospedale di Schiavonia, dov’era ricoverato da metà febbraio; e chi sostiene che si tratti di pura casualità. “È arrivato qui, poteva succedere ovunque”, sostiene Umberto Borile, residente e produttore di moto.

Secondo Auro Michelon, che si occupa anche di ecologia ed è vicepresidente dell’associazione FuoriVia, bisognerebbe ridimensionare l’immagine di un comune totalmente avulso dal mondo circostante. “Come altri posti”, spiega, “Vo’ è un centro di passaggio molto attivo. Per via del commercio del vino, ha contatti con tutta l’Italia del nord, fino a Torino. E pur essendo piccolo, ha un raggio d’azione di quasi quattrocento chilometri”.

Di sicuro, nessuno si aspettava di finire rinchiuso dentro una zona rossa. Neppure la giunta guidata da Giuliano Martini, sindaco rieletto per la terza volta nel 2019 e titolare della farmacia del paese. Subito dopo la morte di Trevisan e la scoperta dei primi casi, racconta, “ho fatto l’ordinanza di chiusura dei due bar nella piazza. È stata una cosa tempestiva, senza sapere quanti fossero i contagiati”.

La serrata totale di Vo’ è stata disposta con un decreto del governo il 22 febbraio. Vengono allestiti dei posti di blocco, presidiati dalle forze dell’ordine e dall’esercito, per impedire i movimenti in ingresso e in uscita. Il sindaco rimarca che, a differenza di Codogno, “da noi all’interno del cluster non c’era niente; né un pediatra né un poliambulatorio, non c’è nulla. È stato molto, molto difficile. Si facevano veramente i salti mortali per riuscire ad andare avanti”.

La quarantena
I momenti iniziali della quarantena, dice Michelon, sono “passati un po’ nel panico”: “Sembrava di essere in un film apocalittico tra infermieri con le tute bianche, camion dell’esercito e blocchi di cemento”. Di fatto, il blocco vero e proprio è entrato in vigore da lunedì; nel fine settimana molti cittadini sono andati a Padova o nei comuni limitrofi a fare le spesa, perché ancora non si sapeva se sarebbero rimasti aperti i supermercati.

Carpanese e la moglie, dal canto loro, si sono immediatamente chiusi in casa. “Avevo letto cose su Wuhan, e avevamo già iniziato a non avere più contatti con i nostri vicini e i nostri amici”. Per Lucchini “è stato un trauma”, perché “non siamo abituati a questo genere di restrizioni, a non poter girare liberamente”. Il virus ha inoltre colonizzato ogni discussione, rendendo ancora più opprimente il clima. “Era sempre quello l’argomento del giorno”, continua Lucchini, “dovevi parlare di questa cosa e sembrava davvero al di là di quello che uno può immaginare”.

Il professor Stefano Merigliano, presidente della scuola di medicina dell’Università di Padova, ha coordinato il lavoro per eseguire i tamponi agli abitanti di Vo’. Aprile 2020. (Matteo de Mayda per Internazionale, Contrasto)

L’incertezza, le tensioni e la paura hanno dominato la prima settimana della quarantena. Da un lato c’era poi chi cercava di documentarsi il più possibile, come Mariachiara Peron, e dall’altro chi testimoniava dall’interno verso l’esterno. Umberto Borile, per esempio, era già in contatto con alcune riviste motociclistiche; per loro ha fatto dei videoreportage dai posti di blocco e dal suo kartodromo completamento vuoto. “Era una roba da vedere”, dice, “perché uno non si rende conto. Poi è successo in tutta Italia, e non ha fatto più tanta notizia. All’inizio però faceva notizia non vedere nessuno che andava al lavoro, le aziende chiuse”.

L’isolamento ha dato una nomea piuttosto sinistra a Vo’. “All’inizio sembrava che fosse tutto concentrato qui”, ricorda Moira Biasio, “ci trovavamo a essere considerati quasi degli appestati”. Lucchini dice che “i miei clienti erano terrorizzati, e la prima fase è stata veramente dura: sembravo un untore”. Borile sottolinea che perfino le merci provenienti da Vo’ erano guardate con sospetto: “Quello che non ha combinato il virus, l’ha fatto l’ignoranza. Mi dica lei se può esserci il virus dentro una bottiglia di vino”.

Con il passare dei giorni, però, al disorientamento sono subentrate forme di adattamento e solidarietà. La condivisione di una situazione inedita ed estrema, dice Peron, ha avvicinato le persone: “Si è creato un bel senso di cooperazione”. Biasio ha riconvertito la sua attività e si è messa a produrre mascherine.

Un discorso analogo lo fa Giorgio Carpanese, anche in base alla sua esperienza di amministratore del gruppo Facebook Quelli che…a Vo’. “Siamo diventati una fonte di informazione a livello locale”, dice, “senza mai pubblicare i nomi delle persone positive. Anzi, abbiamo tenuto un profilo molto basso rispetto all’allarmismo e alle chiacchiere di paese. Spesso abbiamo bacchettato quelli che si azzardavano a dare giudizi, ma da un certo punto di vista gli abitanti di Vo’ si sono uniti di più”.

L’avvicinamento al termine della quarantena, previsto per l’8 marzo, ha indubbiamente aiutato a sopportare le restrizioni; generando però false speranze di “liberazione”. Mentre l’epidemia si diffondeva in tutta Italia, il 7 marzo nella piazza centrale di Vo’ sono state lanciate centinaia di lanterne per dimostrare “che siamo ancora vitali e desiderosi di riprendere la nostra vita quotidiana”. Carpanese l’ha definito un “bellissimo gesto”, fatto con il pensiero che “fosse tutto finito; invece poi è arrivato il decreto che chiudeva l’Italia”. In altre parole, puntualizza Michelon, “ormai tutti stavano diventando come noi”.

Da un punto di vista psicologico, afferma Peron, il passaggio dalla quarantena locale a una nazionale “è stato il più difficile. Ci sentivamo finalmente liberi, e invece ci siamo ritrovati in una prigione più grande”.

L’esperimento
La vera peculiarità della quarantena di Vo’, tuttavia, non sta nell’anticipazione temporale delle misure restrittive; ma nel fatto che queste ultime sono state accompagnate da ben due campionamenti di massa.

Dopo la morte di Trevisan e l’istituzione della zona rossa, i dirigenti sanitari di Padova hanno suggerito alla regione Veneto di testare tutto il paese per “fotografare” lo stato del contagio. In un lungo intervento sul canale YouTube dell’associazione formaScienza, il virologo e professore dell’università di Padova Andrea Crisanti ha detto che “le autorità regionali, un po’ spinte dal panico e dalla preoccupazione, hanno dato l’assenso”.

Vo’, aprile 2020. (Matteo de Mayda per Internazionale, Contrasto)

Il primo screening è stato svolto alla fine di febbraio, nella scuola elementare Guido Negri. Ci sono voluti un paio di giorni, visto che bisognava raccogliere i dati di tutti i cittadini e i loro spostamenti nei giorni precedenti. Non sono mancati problemi logistici e organizzativi, che hanno causato degli assembramenti fuori dall’istituto, risolti anche grazie ai suggerimenti degli stessi cittadini. “C’era chi non vedeva l’ora di andare a farlo per capire se si era positivi o meno”, ricorda Moira Biasio.

Da questa prima analisi, ha spiegato Crisanti, sono emersi 89 casi, subito isolati. Parliamo dunque del 3 per cento della popolazione, un dato solo in apparenza basso. Se la si rapporta al valore di R0 di questo coronavirus (il numero medio di persone che un individuo infetto può contagiare) che è tra due e tre, e al tempo di replicazione virale (circa cinque giorni), “è come avere una bomba innescata”. Tant’è che, avverte Crisanti, se non si fosse fatto nulla “avrebbe infettato il 60 per cento della popolazione di Vo’”.

I tamponi sono stati accompagnati anche da un’indagine epidemiologica sulla storia dei contatti, sulle strutture delle famiglie e sulla sintomatologia. A questo proposito, la sorpresa è che circa il 45 per cento dei positivi a Vo’ era completamente asintomatico, ma comunque in grado di passare l’infezione, il che rappresenta “un problema gigantesco nel controllo della malattia”, dice Crisanti.

All’inizio di marzo, l’università di Padova ha chiesto di fare un secondo esame a fini di ricerca. Crisanti e il professor Stefano Merigliano l’hanno spiegato al sindaco, e l’adesione della cittadinanza è stata enorme (fino al 95 per cento).

A nove giorni dal primo screening sono venuti fuori altri otto casi, tutti asintomatici e legati a parenti positivi (con o senza sintomi). I ricercatori hanno così calcolato che una persona non infetta che vive con familiari positivi ha una probabilità di ammalarsi 84 volte superiore rispetto a chi vive con persone non contagiate. È un meccanismo di trasmissione che abbiamo già visto all’opera nel caso della nave Diamond Princess, e continuiamo a vedere in molte case di riposo.

A Vo’, ha calcolato Crisanti, le misure restrittive “hanno abbattuto l’R0 del 98 per cento”. L’identificazione precoce e immediata dei casi, unita al comportamento della comunità, hanno spento il focolaio. “Abbiamo fatto capire alle persone”, spiega Giuliano Martini, “che questo era il modo in cui Vo’ poteva riscattarsi dall’immagine di ‘paese untore’. L’abbiamo dimostrato mettendo in quarantena in modo serio i contagiati, e non tralasciando nulla”.

Alessandro, 63 anni, e Andrea, 34 anni, aiutano il comune di Vo’ nella distribuzione delle mascherine. Aprile 2020. (Matteo de Mayda per Internazionale, Contrasto)

Il sindaco dice che “il progetto non è ancora finito”, e che a breve partiranno anche i test sierologici per verificare la presenza di eventuali anticorpi. “Sarà una ricerca unica, effettuata su un campione isolato di persone che hanno già fatto due test consecutivi. Vo’ è il solo cluster dove si può fare un’operazione del genere”.

In un articolo pubblicato lo scorso marzo, il giornalista scientifico Andrea Capocci ha descritto Vo’ come il “principale laboratorio vivente al mondo in cui studiare il coronavirus”. I cittadini però non si percepiscono parte di un “modello”; anche perché un simile esperimento è legato alle condizioni particolari del paese e non è replicabile su grandi città, né tanto meno quando lo stato dell’epidemia è avanzato.

“Non mi sono sentito una cavia”, dice Andrea Lucchini, “anzi ero contento di dare una mano alla comunità e al paese per avere dati più certi. Diciamo che era meglio essere ‘famosi’ per altre cose, è andata così”. Anche Umberto Borile lo ribadisce: “Ci siamo ‘sacrificati’ molto volentieri per la ricerca medico-scientifica, e abbiamo fatto quello che andava fatto”.

La paura di uscire
Paradossalmente, ma neanche troppo, il timore dei residenti si è spostato su ciò che è al di fuori del paese. “Adesso che ci liberano”, è il ragionamento che riassume Carpanese, “arriveranno altre persone di altri comuni che non sono state tamponate. E noi che siamo sicuri, rischiamo”. Lo stesso sindaco confida: “Io ho paura a uscire da Vo’, mi creda”.

A riprova di questo timore diffuso, verso la fine di marzo è stato riportato un nuovo caso “di ritorno”. Un residente di Vo’ – negativo al doppio tampone – è tornato a lavorare nella sede di una multinazionale in una zona limitrofa, e lì avrebbe contratto il nuovo coronavirus. Si trattava dell’ultimo caso attivo, che ora è guarito.

L’altra grande preoccupazione è legata all’economia, che si basa in larghissima parte su attività vitivinicole, enogastronomiche e ricettive. Avendo dovuto scontare due settimane di blocco in più rispetto al resto del paese, le perdite sono ormai ingenti. Il comune ha chiesto alla regione il riconoscimento dello stato di calamità.

Sul punto non mancano le critiche al governo. “Tantissima gente qui ha la partita iva”, dice Borile, “lo stato non è intervenuto e doveva farlo immediatamente, in fretta. Dicono che i morti si contano a guerra finita: io spero che ci sia la fine, ma ci saranno tante aziende che non riapriranno più. Dovevano fare tutta Italia zona rossa, adesso saremmo a posto”.

A quasi due mesi dai primi blocchi, la stanchezza è palpabile. Tutti restano in attesa di qualche miglioramento, nella convinzione che il peggio – almeno dal punto di vista sanitario – sia passato. “Vedendo la situazione nazionale e internazionale”, precisa Carpanese, “siamo tutto sommato fortunati. Ci sentiamo delle persone graziate”. In effetti, il 14 aprile 2020 è arrivata la notizia che nel paese non ci sono più casi di covid-19.

Per il momento, il bilancio dei decessi si è fermato a tre persone su quasi un centinaio di casi rilevati. La zona rossa, l’isolamento rigoroso dei positivi e lo screening hanno evitato un’ecatombe: secondo le stime fornite da Martini e Crisanti, potevano esserci fra i trenta e i centoquaranta morti.

“Noi non possiamo che ringraziare per quello che è stato fatto a Vo’”, conclude il sindaco. “Qua non sono intervenuti interessi particolari di nessun genere, e dove bisognava chiudere è stato chiuso”. In altre parti d’Italia, purtroppo, è andata diversamente.

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