25 marzo 2020 11:05

L’ultimo medico di famiglia della provincia di Bergamo a perdere la vita a causa del coronavirus è stato Vincenzo Leone, 65 anni, morto il 22 marzo all’ospedale Humanitas Gavazzeni di Bergamo, dove era ricoverato dal 14 marzo. Di origine siciliana, Leone viveva a Zanica, un paesino della provincia, dal 1991, e si divideva tra due ambulatori della zona, uno a Urgnano e uno a Comun Nuovo. Aveva lavorato fino al giorno prima di essere ricoverato all’ospedale, dove è risultato positivo al test per il Covid-19. Aveva avvertito i sintomi la sera prima del ricovero.

È il terzo medico di base a morire di questa malattia nella provincia più colpita d’Italia, seconda solo alla città cinese di Wuhan per numero di morti e contagiati. “Si è sempre battuto per garantire a noi medici migliori qualità di lavoro e di vita”, ha detto all’Eco di Bergamo Marco Agazzi, un altro medico, presidente della sezione locale del Sindacato nazionale autonomo dei medici italiani (Snami), di cui Leone era vicepresidente.”Vincenzo era un grande lavoratore, oltre che un bravo medico. Noi medici ci troviamo a lavorare in una difficoltà estrema, chiusi negli ambulatori ormai vuoti a dover gestire i pazienti telefonicamente o recandoci al domicilio col rischio di essere contagiati. Ci hanno mandato a combattere questo virus da soli e con dispositivi di protezione inadeguati”, ha concluso Agazzi.

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“Su settecento medici di base della bergamasca almeno 130 si sono ammalati per il coronavirus, alcuni sono morti, altri sono in terapia intensiva. Ci mancano i dispositivi di protezione adeguati, gli ospedali sono al collasso, più che pieni, quindi tantissime persone restano a casa con polmoniti bilaterali e noi non siamo in grado di visitarle”, racconta Paola Pedrini, segretaria della Federazione italiana medici di medicina generale della Lombardia, che ha spedito una diffida indirizzata al ministero della salute, alla regione Lombardia, a tutte le Asl e le procure della repubblica, chiedendo “l’immediata erogazione a tutti i medici di medicina generale e medici di continuità assistenziale di kit completi e un numero adeguato di dispositivi di protezione, di sottoporre tutti i medici, infermieri e personale di studio (e i loro famigliari in caso di positività) ad adeguato test di valutazione dell’avvenuto contagio”.

Pedrini denuncia l’assenza di un protocollo definito e standardizzato per i medici di base, a distanza di più di un mese dall’inizio dell’epidemia. “Ancora oggi non ci sono indicazioni univoche da parte della regione Lombardia, solo una circolare, ma nessun protocollo”. Mentre le notizie sui nuovi contagi e sui morti a Bergamo e in Lombardia cominciano a dare qualche segnale positivo, ci si chiede cosa sia successo nell’ultimo mese nella provincia e nella regione più colpite d’Italia dall’epidemia.

Il contagio massiccio del personale sanitario, la rapidità della diffusione della malattia, la sua letalità più alta che in altre zone e le difficoltà del sistema ospedaliero sono tra gli elementi più eclatanti di questa vicenda, ma non sono gli unici. Mentre è stato proclamato uno sciopero generale dei metalmeccanici lombardi il 25 marzo, in molti si chiedono come mai si sia tardato tanto a chiudere le attività produttive in una zona così colpita dall’emergenza sanitaria.

Morti sottostimati
Secondo i dati ufficiali, in un giorno nella provincia di Bergamo sono morte anche più di cento persone, la media dei morti è stata di cinquanta al giorno. L’immagine dei mezzi militari che trasportano le bare in altri cimiteri italiani per cremare i morti è diventata il simbolo più macabro e scioccante della pandemia di Covid-19 in Italia. Il forno crematorio della città, infatti, non riesce a far fronte al numero eccezionale di salme che quindi sono trasferite in altre città italiane; le ultime 35 bare sono partite il 24 marzo per essere cremate nel cimitero di Bologna. Nella provincia lombarda ci sono stati 6.728 casi e più di mille morti al 24 marzo, ma secondo il sindaco Giorgio Gori sarebbero in realtà di più perché molti anziani sono morti in casa, senza che gli sia stata diagnosticata la malattia.

“Per ogni deceduto per Covid-19 ce ne sono altri tre che sono morti in casa di polmonite e senza test”, ha dichiarato il sindaco della città Lombarda. Lo statistico Francesco Locatelli, bergamasco, sostiene che i contagi devono essere stati sottostimati di cinque o sei volte a fine febbraio e questo, insieme a una serie di altri fattori, spiegherebbe l’alta letalità e il numero di decessi.

Il quotidiano locale L’Eco di Bergamo ha intervistato molti sindaci della provincia per dare la dimensione del fenomeno, in un contesto di piccoli paesi in cui tutti si conoscono e in cui i malati e i morti sono stati centinaia in poche settimane. Alzano Lombardo e Nembro sono stati gli epicentri dell’emergenza nella zona: qui il 23 febbraio sono stati individuati i primi due casi di coronavirus nella bergamasca, due giorni dopo la denuncia del primo caso a Codogno e quattro giorni dopo la partita Atalanta-Valencia, che con i suoi 45mila spettatori a San Siro secondo alcuni avrebbe determinato l’accelerazione del contagio in Lombardia.

Ma a differenza di Codogno, a Bergamo e provincia non è stata dichiarata la zona rossa e i due focolai non sono stati isolati, anzi medici e sanitari hanno continuato a lavorare negli ospedali della Val Seriana senza protezioni, propagando il contagio. A Nembro, il sindaco Claudio Cancelli ha commentato il calo della mortalità degli ultimi giorni dicendo: “Il calo dei decessi è significativo, soprattutto rispetto al periodo dal 10 al 13 marzo. Dall’inizio del mese a Nembro abbiamo avuto tra i 110 e i 120 morti. Nello stesso periodo dello scorso anno quattordici. Basta questo per capire”.

L’ospedale di Bergamo, 15 marzo 2020. (Gabriele Micalizzi, Cesura)

Anche i sindaci della provincia denunciano che i morti per coronavirus sono fortemente sottostimati. “Certo, nel nostro caso i documenti ufficiali dicono che il coronavirus ha causato nove morti”, ha spiegato il sindaco di Seriate Cristian Vezzoli all’Eco di Bergamo. “Ma dall’inizio del mese il nostro ufficio anagrafe ne ha registrate circa sessanta. In assenza di tampone i medici scrivono ‘polmonite interstiziale’ però i sintomi sono chiari e quindi i dati non sono realistici”. Il 14 marzo su Facebook, una bergamasca, Sara Agostinelli, denunciava l’impossibilità di fare il test, pur avendo sintomi compatibili con il Covid-19 da circa un mese.

“Non sono scienziata né statistica ma sono incazzata nera: ho il terrore che fuori da qui non si stia capendo cosa ci succede. Qui si muore come mosche. È chiaro? Decine di morti al giorno. Decine e decine. Il cimitero della città non riesce a smaltire i corpi. I campanili dei paesi non suonano più le campane a morto, perché lo farebbero ininterrottamente. I medici sono esauriti o contagiati. Siamo tutti malati o quasi. Amici, parenti, colleghi, medici di famiglia stessi. Abbiamo febbri molto lunghe e resistenti, molto provanti, dolori forti in varie parti del corpo, mancanza di respiro, tossi e raffreddori portentosi”.

Agostinelli denunciava di non essere stata neppure visitata, perché anche il suo medico di base era stato contagiato. A un mese esatto dai primi sintomi avuti il 23 febbraio, Agostinelli ha ancora febbre e dolori, anche se la temperatura si è abbassata e sono regrediti i sintomi respiratori più gravi, ma la donna racconta che la cosa più difficile è stata senza dubbio quella di non avere nessun supporto da parte dei medici, non per volontà, ma perché, dice, “il sistema stava collassando”. Il medico di base si era ammalato ed è stata costretta a ricorrere ad altri medici, amici o conoscenti, che le hanno fornito delle consulenze telefoniche: “Chiama il 112 solo se non riesci a respirare e se sei a letto, mi dicevano. E non rispondeva nessuno al numero verde dedicato alla malattia. È estremamente difficile stare male con sintomi strani, diversi dalle normali febbri, e doversi fare l’autodiagnosi”.

Ospedali al collasso
A questo proposito i medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo hanno scritto una lettera a una delle riviste scientifiche più prestigiose del mondo, il New England journal of medicine (Nejm), denunciando che, nonostante la struttura ospedaliera cittadina fosse all’avanguardia, nell’ultimo mese è stata incapace di reagire alla pandemia. “Quello che è successo nella benestante Lombardia, può succedere ovunque”, è scritto nella lettera, se non si cambia approccio alla pandemia.

“La situazione è così grave che siamo costretti a lavorare al di sotto dei nostri standard di cura. Si aspettano ore per avere un letto in terapia intensiva. I pazienti più anziani non sono rianimati e muoiono nella solitudine senza neanche il conforto di cure palliative appropriate, mentre le famiglie sono avvertite al telefono del decesso, spesso da un medico esausto ed emotivamente sfinito, che non avevano mai conosciuto prima”, è scritto nella lettera indirizzata al Nejm. “Ma la situazione nelle aree limitrofe è anche peggiore, la maggior parte degli ospedali è sovraffollata, al collasso, mentre mancano medicinali, ventilatori meccanici, ossigeno e i dispositivi di protezione per il personale sanitario”.

Nella lettera, i sanitari dell’ospedale di Bergamo denunciano il mancato coinvolgimento di esperti di epidemie nella gestione della crisi. “Stiamo imparando che gli ospedali possono essere i principali vettori di trasmissione del Covid-19. Mentre si riempiono rapidamente di contagiati possono infatti favorire la trasmissione a pazienti non infetti”. Anche le ambulanze e il personale sanitario diventano un vettore della malattia. La lettera si conclude dicendo che questa situazione catastrofica avrebbe potuto essere evitata se fossero state organizzate per tempo delle cure a domicilio e degli ambulatori mobili in grado di evitare spostamenti non necessari e alleggerire la pressione sugli ospedali. “Ossigenoterapia precoce, ossimetri da polso e approvvigionamenti adeguati possono essere forniti a domicilio ai pazienti con sintomi leggeri o in convalescenza”.

Camion dell’esercito trasportano i corpi delle persone morte a causa del coronavirus, Bergamo, 21 marzo 2020. (Gabriele Micalizzi, Cesura)

Lo aveva detto anche uno dei medici dello stesso ospedale, Pietro Brambillasca, in un’altra intervista: “Se alle persone che stanno a casa in quarantena viene dato un saturimetro, un piccolo apparecchio che controlla i livelli di ossigeno nel sangue, e si controlla la temperatura, la frequenza cardiaca, si fa il test dei passi, si evita di arrivare in ospedale quando si è già in crisi”. Anche perché aggiunge: “In un periodo di emergenza come questo si rischia che un’ambulanza ci metta un’ora per raggiungere il paziente, come è già accaduto in questi giorni a Bergamo. Bisogna rimodulare l’assistenza territoriale”. Tutto questo non è stato messo in campo, ma non solo.

Angelo Giupponi, direttore dell’Agenzia regionale emergenza urgenza di Bergamo, ha dichiarato di aver inviato il 22 febbraio un’email all’assessorato al welfare della regione Lombardia, diretto da Giulio Gallera, in cui sottolineava “l’urgente necessità di allestire degli ospedali esclusivamente riservati a ricoverati per Covid-19, così da evitare promiscuità con altri pazienti e quindi diffusione del virus nelle strutture ospedaliere”. Sul Wall Street Journal, Giupponi ha dichiarato di aver ricevuto questa risposta: “Non dormiamo da tre giorni, non abbiamo voglia di leggere le tue cazzate”.

Le fabbriche in sciopero
Nonostante siano state tra le prime zone d’Italia a registrare dei casi di coronavirus, la città e la provincia di Bergamo non hanno adottato le misure di chiusura totale che sono state invece disposte in altre aree della Lombardia e del Veneto come Codogno e Vo’ Euganeo, che sono state subito dichiarate zone rosse. Il 28 febbraio Confindustria Bergamo ha lanciato una campagna video “Bergamo is running/Bergamo non si ferma” per tranquillizzare i partner internazionali delle aziende bergamasche: un indotto di circa 370 imprese con un fatturato di oltre 650 milioni di euro all’anno.

Ad Alzano Lombardo, uno degli epicentri del contagio, il 4 marzo il sindaco Camillo Bertocchi si preoccupava delle ricadute economiche di un’eventuale chiusura della zona, nonostante i morti fossero già decine, e in un’intervista all’Adnkronos diceva che i danni sarebbero stati “incalcolabili”. Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha ammesso: “Ci abbiamo messo qualche giorno di troppo a capire, abbiamo sbagliato anche noi, anche io. Eravamo preoccupati per il virus, ma anche per le attività economiche delle nostre città, i negozi, gli studi, i bar, la vita stessa nei nostri concittadini. Ma quell’equilibrio non poteva reggere”. Tuttavia tra il 23 febbraio e l’8 marzo, giorno in cui tutta la penisola è stata dichiarata zona protetta per decreto, nelle zone italiane più colpite dalla pandemia non sono state adottate misure straordinarie: a Bergamo e nella Val Seriana hanno continuato a funzionare le fabbriche e tutto il loro indotto, così come anche le attività commerciali.

Il 30 per cento delle fabbriche del territorio rimarrà in ogni caso funzionante, anche questa settimana

Il professore di storia Paolo Barcella, cercando di rispondere alla domanda “Perché proprio qui?” sulla rivista Il Mulino ha spiegato: “Il trenino della Valle Seriana fa una decina di fermate tra Albino, Nembro, Alzano (un asse che costituisce il cuore del cuore del disastro), portando su e giù migliaia di studenti e lavoratori. Fino a non molti giorni fa, il trenino ha certo pesantemente contribuito alla diffusione del contagio”. Le aziende e le fabbriche, luoghi affollati e promiscui, hanno continuato a funzionare, anche se producevano beni non essenziali. Per questo dopo settimane di proteste e di scioperi, la Fiom-Cgil della Lombardia ha convocato lo sciopero generale il 25 marzo, anche per protestare contro l’ultimo decreto del governo che obbliga alla chiusura di tutte le fabbriche non essenziali, ma poi ne lascia aperte in ogni caso numerose, da molti ritenute non necessarie.

Il decreto entrerà in vigore proprio il 25 marzo. Il segretario della Fiom-Cgil di Bergamo, Andrea Agazzi, spiega che la nuova norma, firmata dal presidente del consiglio Conte il 22 marzo, dà grande spazio alle aziende che non svolgono attività indispensabili: “C’è addirittura la possibilità che attraverso una comunicazione al prefetto le aziende si possano dichiarare essenziali”. Agazzi sostiene che ancora la metà delle attività produttive della zona erano attive fino alla scorsa settimana, anche se nella maggior parte delle fabbriche gli operai si sono messi in malattia o in ferie per paura di contrarre il virus. Per Agazzi, “il 30 per cento delle fabbriche del territorio rimarrà in ogni caso funzionante, anche questa settimana”. Il clima nei posti di lavoro è di paura: “I lavoratori temono di diventare un tramite per la malattia, di contrarla sul posto di lavoro e di portarla a casa e contagiare i familiari”. Nessuno in città può dire di non conoscere contagiati o anche persone che sono morte a causa del virus.

“La compagna di mio padre lavora in un’azienda di prodotti cosmetici dove non sono presenti adeguati impianti di aspirazione, non hanno mai sanificato il luogo nonostante molte persone avessero avuto i sintomi del virus e, per di più, le mascherine venivano usate ben oltre i tempi indicati a causa della loro carenza. Ora è a casa malata”, racconta Caterina Corti, bergamasca. “Alcuni amici mi hanno raccontato che le loro aziende, dopo settimane di richieste rimaste inascoltate, hanno diviso il personale su più turni per poter garantire le distanze, ma a quel punto le persone erano talmente agitate che non riuscivano a lavorare”, continua la ragazza.

“Noi bergamaschi siamo circondati dalla malattia. Io stessa sono stata a contatto con almeno sei persone che l’hanno contratta, alcuni sono malati, ma non sono sicuri che sia Covid-19. Nelle nostre conversazioni al telefono siamo ossessionati dalle date e dai percorsi che abbiamo incrociato con le persone che hanno contratto il virus. Abbiamo molta paura, spesso ci sentiamo soli, disorientati, arrabbiati”, conclude Corti, che però sottolinea che in città si è attivata anche una rete spontanea di solidarietà e di cooperazione dei cittadini, che solo qualche settimana prima sarebbe stata inimmaginabile. “Alcuni bisogni primari sono garantiti da associazioni che hanno attivato servizi di distribuzione su base volontaria, come l’associazione Maite”. Anche Sara Agostinelli dice di avere avuto l’assistenza costante di amici e associazioni: “Io vivo da sola, ma non sono stata lasciata mai da sola, mi hanno portato la spesa e i medicinali e l’hanno portata anche ai miei genitori, che hanno settant’anni e sono chiusi in casa per la paura di contrarre la malattia da settimane, senza che io me ne possa occupare”, racconta Agostinelli.

Passati i momenti peggiori, Agostinelli dice che le è rimasta addosso molta rabbia: “Perché c’è stata questa comunicazione schizofrenica da parte delle autorità? Ci hanno detto che saremmo potuti uscire nel bel mezzo dell’epidemia. Poi c’è stato un conflitto tra autorità locali, regionali e nazionali. I mezzi d’informazione hanno sminuito il pericolo, dicendo che colpiva solo gli anziani, da una parte disumanizzando una parte della popolazione e dall’altra raccontando una mezza verità. Sui social network tutti scrivevano ‘andrà tutto bene’, facevano battute sulla quarantena. Fuori da qui, non si è proprio capito quello che stava succedendo in Lombardia”. Tutti hanno avuto dei lutti, moltissimi si sono ammalati, senza neppure sapere di esserlo.

Ascoltando i racconti dei bergamaschi, sembra di leggere le righe iniziali di Un paradiso all’inferno della scrittrice statunitense Rebecca Solnit: “Chi siete voi? Chi siamo noi? In tempi di crisi queste domande sono questioni di vita e di morte. Migliaia di persone sopravvissero all’uragano Katrina perché nipoti o zie, vicini di casa o persone del tutto estranee soccorsero chiunque avesse bisogno di aiuto su tutta la costa del golfo del Messico e grazie al fatto che alcuni proprietari di barche di ogni dimensione, dai centri più vicini e persino da luoghi lontani come il Texas, raggiunsero New Orleans per trarre in salvo quelli in difficoltà. Centinaia di persone morirono invece subito dopo Katrina perché altri, tra cui la polizia, le ronde di volontari, gli alti funzionari del governo e i media, decisero che gli abitanti di New Orleans erano troppo un pericolo per consentire loro di fuggire dalla città in balìa delle acque e delle malattie o per andarli a salvare, persino negli ospedali”.

Correzione: nella prima versione di questo articolo si attribuivano i morti della provincia di Bergamo alla sola città di Bergamo.

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