08 aprile 2020 11:53

Probabilmente ha contratto il virus dalla sorella, che è un medico e lavora in ospedale. Evita Tobanelli vive a Gardone Riviera, in provincia di Brescia, e da quasi un mese è chiusa in casa con le sue tre figlie e suo marito. Sono tutti ammalati di covid-19, senza che la malattia gli sia stata però diagnosticata ufficialmente. Sono stati giorni di angoscia quelli trascorsi tra la difficoltà di farsi un’autodiagnosi e quella di farla a suo marito che ha contratto la malattia in una forma grave. Dopo giorni che non riceveva risposte dal sistema sanitario nazionale e dal 112, Tobanelli è stata costretta a far salire il marito in macchina e a portarlo in ospedale, dove è stato ricoverato.

Prima di decidere di andare in clinica, la donna ha passato ore al telefono, cercando di parlare con i medici. “Il numero verde attivato dalla regione Lombardia mi rimandava alla guardia medica e al medico di famiglia. Quando mio marito ha cominciato ad avvertire sintomi più gravi ai polmoni, ho chiamato il 112, ma mi ha detto di chiamare la guardia medica, che prima mi ha dato dei consigli per telefono, poi è venuta a casa e ha diagnosticato la polmonite, prescrivendomi degli antibiotici ad ampio spettro, che però non hanno fatto effetto, perché la polmonite era causata dal coronavirus”, racconta la donna che è ancora malata, insieme alle sue tre figlie, ma non ha la certezza assoluta di avere il virus, perché non le è stato fatto nessun test per accertarlo.

Autodiagnosi
Preoccupata per la salute del marito che respirava a fatica, al nono giorno chiusa in casa, nonostante la febbre, Tobanelli ha deciso di andare al pronto soccorso di Gavardo. “Erano in venti sulle barelle, nel corridoio dell’ospedale”, afferma la donna, che per giorni non ha ricevuto notizie sul decorso della malattia. “Le informazioni arrivano solo quando c’è un peggioramento, non per colpa dei medici, ma perché il sistema è al collasso e l’ultima delle preoccupazioni è che i parenti siano avvertiti”.

Anche sui farmaci c’è molta confusione: “All’inizio ci davano solo paracetamolo e antibiotici generici, ora invece stanno distribuendo il Plaquenil, ma tutto è sulle spalle dei farmacisti di zona che stanno cercando di fare arrivare i medicinali e le bombole di ossigeno anche da altre regioni, perché qui scarseggiano”. Ora che le cose vanno meglio, Tobanelli confessa che lo sconcerto più grande è stato provocato dal fatto di essersi ritrovata senza assistenza sanitaria, abbandonata a se stessa. “Non ci hanno fatto tamponi, nonostante i sintomi. Nella mia testa è inspiegabile come sia stato possibile in un paese civilizzato arrivare a questo punto”.

Anche Giada Vincenzi, psicoanalista di Gardone Riviera sul lago di Garda, racconta una storia simile: ha la febbre da un mese insieme agli altri sintomi del covid-19: anosmia (perdita dell’olfatto), dolore alle ossa, prurito al naso e alla gola. Da un mese passa molte ore al giorno al telefono con il suo medico di famiglia. Si è autoimposta la quarantena, ma nessuno le ha diagnosticato il covid-19 e non è stata sottoposta ad alcun test, prima che le venisse la febbre ha continuato ad andare in giro e ha incontrato molte persone che potrebbe aver contagiato. Nessun tampone è stato fatto a lei e a chi l’ha frequentata.

Secondo un’analisi, i contagiati nella provincia sarebbero 190mila

Secondo il Giornale di Brescia, proprio per la mancanza di un protocollo di accertamento dei contagi, le persone che avrebbero contratto la malattia, in una delle province più colpite dall’epidemia, sarebbero ventuno volte di più di quelle che risultano dai conteggi ufficiali. Se secondo le stime della regione Lombardia, i contagiati sarebbero quasi novemila, secondo un’analisi condotta da InTwig di Bergamo in collaborazione con il Giornale di Brescia, i contagiati nella provincia sarebbero 190mila, un abitante su sei, circa il 15 per cento della popolazione locale. Stesso problema ci sarebbe per il numero dei morti, che sarebbero molti di più di quelli dichiarati dalle autorità. La stessa cosa è avvenuta nella provincia di Bergamo.

A marzo in duecento comuni della provincia ci sono stati più di 3.700 decessi, un numero quattro volte superiore a quello registrato nello stesso periodo del 2019. Secondo lo studio del quotidiano locale, nella provincia di Brescia sarebbero morte circa tremila persone a causa del covid-19, il doppio di quelle dichiarate dai dati ufficiali.

Anche Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, nella conferenza stampa del 31 marzo, ha ammesso che sia plausibile una sottostima delle morti e ha assicurato di essere già al lavoro con l’Istat per ottenere dati più realistici. “Sarà necessario incrociare molti dati che al momento percorrono differenti canali: per il territorio nazionale non esiste quindi al momento nessun sistema rapido capace di intercettare un eccesso di mortalità e attribuirgli una causa”, scrive in un articolo sull’argomento Scienza in rete.

Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, sostiene che i dati ufficiali hanno documentato solo “la punta dell’iceberg” del contagio: “L’eccesso di letalità documentato in alcune province lombarde (in particolare Bergamo, Brescia e Cremona) consegue alla mancata effettuazione del tampone in soggetti sintomatici non ospedalizzati, in particolare a domicilio e in case di riposo per anziani”.

Cartabellotta assicura che la sottostima del numero dei contagi “è un dato che riguarda, in misura variabile, tutte le regioni, per un motivo molto semplice: il numero dei nuovi casi è di gran lunga superiore al numero dei tamponi che possono materialmente essere effettuati ogni giorno”. Per il presidente della fondazione Gimbe in Lombardia “nel contenitore dei ‘dimessi/guariti’ si fanno confluire i casi che hanno fatto almeno un passaggio dall’ospedale (anche solo dal pronto soccorso) e non sono stati ricoverati. Ovviamente non si sa nulla sul loro status di guarigione clinica o virologica, ma nel dato nazionale vengono di fatto inseriti nei guariti, con conseguente rilevante sovrastima del dato”.

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Per Emanuele Galesi, giornalista del Giornale di Brescia, il fatto che non siano stati fatti i test in maniera diffusa è una delle questioni ancora aperte in tutta la regione Lombardia: “È un tema che sollevano sia i medici sia gli amministratori locali. A questo punto appare evidente che sia i contagi sia le morti siano stati sottostimati e questo ancora oggi non è riconosciuto da parte della regione Lombardia”.

Il primo focolaio
Nella provincia di Brescia i primi contagi sono stati registrati nella Bassa, al confine con la zona di Cremona e di Lodi e con la bergamasca. Il primo focolaio della malattia nel bresciano è stato un comune tra Brescia e Crema: Orzinuovi, città natale dell’ex allenatore della nazionale Cesare Prandelli. “All’inizio di marzo in una cittadina di 12mila abitanti ci sono stati subito molti contagi e un numero considerevole di morti, denunciate anche dal sindaco, Gianpietro Maffoni, che poi ha finito per ammalarsi”, racconta Galesi.

All’origine del contagio ci sarebbe stata una partita di bocce, a cui hanno partecipato persone venute da Lodi. Anche se in una nota tecnica l’istituto superiore di sanità consigliava d’istituire una zona rossa già dal 2 marzo, come era avvenuto a Vo’ Euganeo e a Codogno, fino al 9 marzo (quando tutta Italia è stata dichiarata zona protetta dal governo con un decreto) nel bresciano non sono state adottate misure di chiusura e il virus ha continuato a diffondersi e a mietere vittime.

“Se ne è parlato e discusso all’interno del Comitato tecnico scientifico, la nota è stata oggetto di discussione”, hanno confermato all’istituto superiore di sanità. Eppure non sono stati presi provvedimenti. “Se in quel momento, il 2 marzo, fosse stata imposta la chiusura totale con la zona rossa, noi sindaci saremmo stati sicuramente agevolati nella gestione dell’emergenza”, ha dichiarato Maffoni, il sindaco di Orzinuovi al Giornale di Brescia.

Un ospedale nell’ospedale
“In tutta la regione mancavano posti in emergenza, abbiamo scontato sia i tagli ai posti letto negli ospedali sia quelli al personale medico”, continua Galesi, che però ritiene che ci siano state una serie di concause a provocare la débâcle del sistema sanitario lombardo. “Abbiamo vissuto dei giorni in cui sentivamo tutto il tempo il suono delle ambulanze che entravano e uscivano dall’ospedale civile di Brescia, dove al momento ci sono ottocento pazienti covid-19 ricoverati e ancora mancano i medici”, continua Galesi, secondo cui non è stata affatto superata la necessità di personale medico e di materiale protettivo negli ospedali della città.

Il giornalista spiega che, a un mese dallo scoppio dell’epidemia, si susseguono messaggi contrastanti da parte delle autorità: da una parte la regione Lombardia ha annunciato di voler attrezzare 180 posti letto all’interno dell’ospedale civile di Brescia per i pazienti covid-19, quando il ministero della salute si è raccomandato di creare strutture destinate all’emergenza coronavirus separate dagli altri reparti, in modo da evitare il contagio, che proprio negli ospedali ha avuto una particolare diffusione.

Il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, aveva auspicato la costruzione di un ospedale da campo, che fosse destinato esclusivamente al trattamento del covid-19, come è successo a Bergamo, ma per il momento la sua richiesta non è stata presa in considerazione dalle autorità regionali. Anche il presidente dell’ordine dei medici di Brescia, Ottavio Di Stefano, in una lettera indirizzata alla regione ha sollevato dei dubbi sul nuovo progetto di riconversione di un reparto dell’ospedale civile, che costerà un milione di euro e che dovrebbe partire il 14 aprile.

All’interno di una struttura temporanea allestita per ospitare persone affette da covid-19 a Brescia, il 13 marzo 2020.
(Francesca Volpi, Bloomberg/Getty Images)

Le sue perplessità sono condivise dal personale sanitario del principale ospedale di Brescia che si chiedono: “Ristrutturare un padiglione del Civile soddisferà i requisiti minimi previsti dall’Organizzazione mondiale della salute (Oms) per questa tipologia di struttura? Sono previsti e si potranno realizzare in sessanta giorni, percorsi differenziati per l’accesso ai servizi tra pazienti covid e non covid? Quali malati dovranno accedere al nuovo reparto?”.

Di Stefano preferirebbe “una struttura modulabile esterna, ma vicina all’ospedale per malati a bassa e media intensità”, ipotesi “consigliata dalle agenzie tecniche internazionali”. E si chiede come mai non siano state ripristinate delle strutture già esistenti in città per ospitare il nuovo reparto. Un’altra questione riguarda l’invio di personale medico aggiuntivo per gestire la struttura: ma al momento sembrerebbe che sarà lo stesso personale dell’ospedale a far fronte anche alle esigenze del nuovo reparto.

A questo proposito, il sindaco di Brescia Del Bono, insieme ad altri sindaci, ha inviato due lettere al presidente della regione Lombardia Fontana chiedendo spiegazioni sulla mancanza di dispositivi di protezione per i medici, sulla lentezza e insufficienza dei test diagnostici, sulla situazione nelle case di riposo (Rsa) e sulle prospettive di diffusione dei test sierologici, usati per individuare l’eventuale presenza di anticorpi. In particolare Del Bono continua a chiedere dove sono i medici volontari che hanno accettato la chiamata della protezione civile per portare supporto agli ospedali del bresciano e fa appello alle altre regioni perché mettano a disposizione dei posti letto, per supplire alla carenza nella zona.

Senza tamponi
Mentre si riducono i contagi per effetto della quarantena e del distanziamento sociale, rimangono aperte due questioni: la carenza di dispositivi di protezione per i medici e la scarsità dei test diagnostici. “Mancano ancora le mascherine e i reagenti per fare i test”, spiega Galesi. “Solo qualche giorno fa è stato introdotto il test della temperatura per i medici quando entrano ed escono dall’ospedale civile”, continua. Inoltre “i test sono eseguiti solo all’ospedale, mentre le unità speciali di continuità assistenziale (Usca), che fanno assistenza domiciliare da una settimana, non eseguono i test per accertare che le persone abbiano contratto il coronavirus”, conclude il giornalista.

In Lombardia si fanno ogni giorno circa seimila test in venticinque laboratori, ma nonostante tutte le autorità sanitarie prescrivano di fare quanti più tamponi possibile, sembra che nella regione italiana più colpita dal virus sia impossibile per molte ragioni: i laboratori locali stanno lavorando al massimo delle loro possibilità, mancano i reagenti chimici necessari, i macchinari e il personale in grado di aumentare in maniera sostanziale il numero dei tamponi.

Nella lettera inviata alla regione, i sindaci lombardi chiedono perché i test diagnostici siano ancora riservati “ai soggetti sintomatici candidati al ricovero e agli operatori sanitari con sintomatologia similinfluenzale”. Questo significa che la regione Lombardia “ha del tutto abdicato all’uso di questo strumento come mezzo per il contenimento della diffusione del virus, a differenza di quanto continua a essere fatto in altre regioni. L’autoisolamento prescritto a ogni assistito con sintomatologia similinfluenzale non consente infatti, quand’anche attuato, di individuare precocemente e di testare anche i familiari e i contatti più stretti”.

In una lettera indirizzata sempre alla regione dalla Federazione regionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri della Lombardia, si chiede che gli operatori sanitari siano sottoposti subito a un test rapido immunologico e che i casi positivi siano ulteriormente testati con tamponi diagnostici.

Le residenze per anziani
Negli ultimi giorni è emerso infine molto chiaramente che uno degli elementi che ha aggravato il contagio in Lombardia è stata la gestione delle residenze per anziani (Rsa). A lanciare l’accusa in un’intervista al Quotidiano del Sud il 4 aprile è stato Luca Degani, il presidente di Uneba Lombardia, l’associazione di categoria delle case di riposo lombarde. Degani ha denunciato l’adozione di una delibera regionale in cui si chiedeva di ospitare pazienti con i sintomi del covid-19 nelle Rsa: “È stato come accendere un cerino in un pagliaio: quella delibera della giunta regionale l’abbiamo riletta due volte, non volevamo credere che dalla regione Lombardia potesse arrivarci una richiesta così folle”. In Lombardia le Rsa ospitano per lo più anziani che hanno già malattie gravi, in totale dispongono di 70mila posti letto, l’80 per cento dei posti letto sono in strutture private.

Luca Laffranchi, direttore della Rsa di Quinzano d’Oglio, un comune di seimila abitanti in provincia di Brescia, conferma lo sbigottimento di fronte alla delibera dell’8 marzo 2020: “Noi ci siamo rifiutati di prendere casi covid-19 in fase di guarigione, non possiamo farlo, non abbiamo una struttura adeguata”. Laffranchi ricostruisce che il centro era chiuso ai visitatori a partire dalla fine di febbraio, ma il virus era evidentemente già penetrato e in presenza di ospiti particolarmente anziani e con patologie pregresse è stato letale. “Sono morte 35 persone su settanta, tutte nel mese di marzo, in un giorno ne sono morte anche cinque. L’anno precedente ne erano morte venti in un anno”, afferma il direttore dell’Rsa. Nessuno dei morti è finito nei conteggi ufficiali, perché solo il primo malato è stato sottoposto al test per verificare se era stato contagiato dal coronavirus, anche se tutti presentavano i sintomi della malattia.

Negli istituti per anziani del bresciano ci sono stati diversi focolai, come in quello di Barbariga, oppure nella residenza per disabili Tonini Boninsegna di Brescia. L’allarme era stato lanciato anche dai sindacati, che hanno formalizzato una diffida congiunta ai direttori di tutte le Rsa per tutelare gli operatori. “Qui da noi è stato un disastro, ci siamo ammalati tutti, il personale si è ammalato di covid-19, gli ospiti erano in due in ogni camera, non c’erano protezioni per gli operatori, non c’era terapia per i malati se non ossigeno e antibiotici”, conclude Laffranchi. “I familiari non hanno potuto nemmeno salutare i defunti, come sapete i funerali non si possono svolgere”.

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