“Da che eravamo considerati gli untori, ora siamo noi ad avere paura di essere contagiati”, scherza Giovanni Trecciola, 58 anni, gestore di uno degli alimentari di Nerola, il piccolo borgo accastellato della Sabina romana che il 25 marzo è diventato la prima zona rossa del Lazio, ritornato alla normalità il 14 aprile, dopo venti giorni d’isolamento, con la rimozione dei blocchi stradali dell’esercito che impedivano agli abitanti di entrare e uscire dal paese a sessanta chilometri da Roma. “È stata dura, ma sembra che ce l’abbiamo fatta. Erano aperti solo i negozi con i beni di prima necessità, anche la banca è stata chiusa e non è stato facile”, continua il commerciante.
Si conclude così un caso che avrebbe potuto essere una pagina nera della pandemia di coronavirus in Italia e che invece è diventato un esperimento per capire come avviene il contagio e come contrastarlo. Dopo la chiusura del paese attraverso posti di blocco, quasi la metà dei 1.900 abitanti è stata sottoposta a tampone e ad altri test dall’azienda sanitaria locale, sotto la supervisione di Francesco Vaia, direttore sanitario dell’ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma, per individuare eventuali casi positivi al covid-19 e isolarli dal resto della popolazione.
Dagli esami effettuati sono risultati sette i positivi, tutti asintomatici e tutti legati per ragioni lavorative alla casa di riposo Santissima Maria Immacolata di Nerola, dove a marzo era cominciato il contagio, con 56 anziani su 63 risultati positivi al covid-19, successivamente trasferiti dalla casa di riposo di Nerola alla clinica Nomentana hospital di Fonte Nuova.
Verso la fase due
“Siamo usciti da questa zona rossa fortificati, ma abbiamo vissuto momenti terribili. Quando il prefetto ha chiamato il 25 marzo per dirci che saremmo stati isolati, che dal giorno successivo sarebbero arrivate le forze dell’ordine e l’esercito a chiudere il paese, abbiamo avuto sentimenti ambivalenti, ci siamo sentiti tutti sotto processo, ma poi ci siamo organizzati, abbiamo soprattutto chiesto che fossero fatti i tamponi a tappeto. E così è stato. Ora sappiamo che praticamente siamo tutti sani e i pochi positivi sono in isolamento”, racconta la sindaca di Nerola Sabina Granieri, che amministra il paese da quindici anni.
“La casa di riposo è sul nostro territorio da molto tempo, è di proprietà della curia. Per noi è stata come una bomba che è esplosa all’improvviso. Su venticinque dipendenti, sedici sono risultati positivi al covid-19, così come quasi tutti gli ospiti. Ci sono stati diversi decessi per la malattia. Ma non è ancora chiaro quale sia stata la dinamica del contagio all’interno della struttura”, sottolinea Granieri.
Dal 5 marzo erano vietate le visite dei parenti nella residenza per anziani che ospitava 63 persone. A Nerola (come a Fondi, Contigliano e Celleno nel Lazio) è stata dichiarata la zona rossa, perché 72 casi positivi al covid-19 su una popolazione di duemila abitanti è stata considerata un’incidenza alta e pericolosa e sono state adottate le stesse misure implementate a fine febbraio anche a Vo’ Euganeo, in Veneto.
Durante l’isolamento, la gran parte della popolazione di Nerola (esclusi i bambini fino a 12 anni) è stata sottoposta a tre test: il tampone nasofaringeo classico per determinare l’eventuale positività alla malattia, ma anche due test sierologici: il test rapido che avviene attraverso una puntura sul dito e infine l’esame del sangue per rilevare gli eventuali anticorpi al virus. “Questo è servito a chiarire soprattutto l’efficacia dei test sierologici, che potrebbero essere usati per monitorare una larga fascia della popolazione italiana nella cosiddetta fase due”, spiega Granieri. “I positivi da noi non hanno avuto né febbre né tosse. Nessun sintomo. Se non fossero stati individuati avrebbero continuato a propagare il contagio”.
“Abbiamo riscontrato che a Roma il virus si è mosso in maniera diversa da altre città, anche perché il sistema sanitario ha reagito bene, non ci sono stati contagi negli ospedali come lo Spallanzani. Il virus non si è diffuso in maniera omogenea e capillare nell’area metropolitana di Roma e ci sono stati relativamente pochi contagi, questo ci ha spinto a concentrarci sui focolai più impegnativi in periferia – Nerola, Civitavecchia, Fonte Nuova, Fondi, Tivoli – prima che si espandessero”, spiega Francesco Vaia, direttore sanitario dell’ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma, responsabile dell’esperimento fatto a Nerola. “Abbiamo mandato in questi focolai delle squadre di ricerca epidemiologica mobili, con dei camper”, continua Vaia.
“Quello che abbiamo riscontrato a Nerola ci aiuta a capire qual è il ruolo degli asintomatici nella trasmissione della malattia, ma anche qual è il numero dei falsi positivi nei test sierologici”, continua Vaia. “Abbiamo verificato che i falsi positivi sono pochi e siamo quindi pronti a usare i test sierologici su larga scala su tutto il personale sanitario regionale e su tutte le forze dell’ordine: due fasce di popolazione che ci sembrano più esposte a contrarre la malattia”, continua il direttore sanitario dello Spallanzani, secondo cui questa misura consentirà alla regione di entrare presto nella cosiddetta fase due, che prevederà anche la cura a domicilio dei malati di covid-19, con la distribuzione dei farmaci antivirali già usati dagli ospedali covid-19 della regione.
Dentro la casa di riposo
Non è ancora chiaro come il virus sia entrato all’interno della casa di riposo di Nerola, ma secondo Rita Casilli, medico di base, 63 anni, che lavorava nella struttura, il covid-19 potrebbe essere stato portato da qualche anziano ospite dimesso dall’ospedale di Rieti e rientrato nella casa di riposo all’inizio di marzo, già contagiato. “Gli ospiti erano tutti molto anziani e tutti con patologie pregresse importanti, molti non erano autonomi”, racconta Casilli, che lavora nella struttura da trent’anni e ha contratto il coronavirus proprio all’interno della casa di riposo, dove ha prestato servizio nell’ultima settimana di attività prima della chiusura.
Molti degli anziani nella casa di riposo erano in età avanzata e non avevano figli o parenti prossimi. Casilli ricorda in particolare la storia di uno di loro, morto per il covid-19, Alcide. Aveva 86 anni, era nella casa di riposo dal 1994, non aveva figli, il suo unico fratello era morto anni prima. “Da ragazzino era rimasto sotto le macerie dei bombardamenti di Roma, durante la guerra. Probabilmente in seguito a questa vicenda, aveva perso il senno, così era stato portato nel manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma. Poi da anziano si era trasferito nella casa di riposo, non aveva parenti stretti, gli volevamo molto bene, ma il coronavirus se l’è portato via”, ricorda Casilli tra le lacrime.
Secondo Casilli, il personale è stato dotato di dispositivi di sicurezza come mascherine, guanti e camici dall’inizio di marzo ed è stato impedito ai parenti di visitare la struttura, ma in un primo momento non è stato imposto l’isolamento agli anziani riammessi dopo un ricovero in ospedale per altre patologie. “Molti dormivano in stanze doppie, oppure frequentavano il salone della casa di riposo e la mensa, mangiavano insieme e stavano insieme tutto il tempo a chiacchierare, per passare il tempo”, continua Casilli. Ci sono stati diversi decessi nella settimana tra il 16 e il 22 marzo, afferma la dottoressa.
In un solo giorno, tra il 21 e il 22 marzo, sono morte tre persone: un numero anomalo perché di solito in quella struttura morivano tre persone al mese, secondo il medico. Fino al 23 marzo non sono stati fatti tamponi nella struttura, nonostante diverse persone presentassero sintomi di covid-19. “Poi la figlia di una delle ospiti che aveva la febbre ha insistito perché la madre fosse portata in ospedale e lì è risultata positiva al coronavirus”, afferma Casilli.
A quel punto è scattata l’allerta da parte dell’azienda sanitaria locale, Asl Roma 5, che ha eseguito un sopralluogo nella casa di riposo il 23 marzo, facendo i tamponi agli ospiti e ha dichiarato che la struttura non era a norma per ospitare anche persone non autosufficienti, che sono state quindi trasferite il 25 marzo in una delle Residenze sanitarie assistite (Rsa) più grandi del Lazio, il Nomentana hospital di Fonte Nuova, a una trentina di chilometri da Nerola.
Casilli ha scoperto il 27 marzo di essere stata a sua volta contagiata e da quel momento si è isolata dalla sua famiglia e ha smesso di fare visita a sua madre, un’anziana di novant’anni. “Ho avuto la febbre che mi andava e veniva, pochi altri sintomi. Mi sono curata da sola in casa e ho evitato di avere contatti con mio marito e mia figlia, ora sto aspettando che mi facciano un secondo tampone per capire se sono guarita”, conclude.
Le strutture per anziani nel Lazio
Anche se in parte quella di Nerola è una storia a lieto fine, rimangono delle questioni aperte, in particolare riguardo alla casa di riposo per anziani Santissima Maria Immacolata di piazza Roma di Nerola, che ospitava diverse persone non autonome pur non avendo la necessaria autorizzazione sanitaria, e alla decisione di trasferire una parte dei suoi ospiti al Nomentana hospital di Fonte Nuova, una struttura dove erano già presenti dei malati di covid-19 e che si è di fatto trasformata in un altro focolaio della malattia alle porte di Roma.
La regione aveva infatti deciso di adibire il terzo piano del Nomentana a centro covid-19 per malati non gravi, decisione che ha sollevato diverse critiche, perché la struttura ospitava già persone particolarmente fragili con altre patologie, e che avrebbero potuto essere facilmente infettate.
Il consigliere comunale di opposizione di Fonte Nuova, Gian Maria Spurio, sulla sua pagina Facebook ha chiesto come mai gli ospiti della casa di riposo di Nerola siano stati trasferiti a Fonte Nuova, di fatto alimentando un nuovo focolaio. Inoltre ha sollevato la questione di un presunto conflitto d’interesse, rivelando che il presidente del consiglio comunale di Fonte Nuova, Claudio Floridi, è anche il direttore della casa di riposo Santissima Immacolata di Nerola ed è anche tra i proprietari del Nomentana hospital.
Il 25 marzo, infatti, mentre Nerola veniva dichiarata zona rossa, 49 anziani sono stati trasferiti al terzo piano del Nomentana hospital, aggiungendosi ad altri 22 casi risultati positivi al virus, registrati tre giorni prima. “Ci sono molte cose che dovrebbero essere chiarite, anche perché nella clinica c’erano già dei casi positivi, e ci sono state denunce da parte dei dipendenti che mancavano i dispositivi di sicurezza”, afferma Gian Maria Spurio. “Abbiamo chiesto a gran voce che la clinica fosse dichiarata zona rossa”.
Il sindaco di Fonte Nuova, Piero Presutti, a quel punto ha presentato un esposto in procura per violazione dell’articolo 650 del codice penale, chiedendo di avere informazioni sulla situazione del contagio all’interno del Nomentana hospital e contemporaneamente ha chiesto alla regione Lazio di eseguire tamponi su tutti i circa cinquecento ospiti della struttura, anche perché nel frattempo tanti dipendenti, operatori e infermieri della Rsa, si erano ammalati.
Raggiunta telefonicamente, una delle infermiere del Nomentana hospital osserva che all’interno della struttura, la zona rossa in un reparto chiuso è stata dichiarata solo alla fine di marzo, anche se probabilmente i primi casi potevano risalire all’inizio del mese. “Mi sono ammalata di covid-19 come molti altri colleghi, lavorando con gli anziani, avevamo mascherine, ma le precauzioni non sono state sufficienti”, afferma la donna, che preferisce rimanere anonima e che ha contagiato anche la sua famiglia.
In seguito alle proteste, l’11 aprile, i contagiati sono stati spostati dal Nomentana hospital all’Italian hospital group di Guidonia. “Si apprende con soddisfazione, anche se ancora una volta dagli organi di stampa, senza alcuna comunicazione istituzionale a questa amministrazione, della decisione dell’assessorato alla sanità della regione Lazio di trasferire tutti i pazienti risultati positivi al covid-19 presenti nella struttura sanitaria Nomentana hospital, presso altre strutture di Rsa e quindi di recedere dalla precedente decisione di utilizzare solo parte della struttura sanitaria come centro covid di bassa intensità”, ha dichiarato sul sito del comune il sindaco di Fonte Nuova, Presutti.
Il sindaco di Fonte Nuova ha detto di condividere “la scelta dell’assessorato alla sanità che va nella giusta direzione, in ottemperanza alle disposizioni del ministero della sanità, di eliminare la promiscuità all’interno di una struttura in cui sono presenti pazienti già particolarmente fragili ed esposti più di altri alle conseguenze del contagio e nell’interesse della tutela del bene primario della salute dei pazienti, del personale e dei cittadini fontenovesi, oltre che di quelli degli altri comuni del vasto territorio interessato. Tra pochi giorni, al completamento della campagna di esecuzione di tamponi, sarà possibile avere un quadro completo della situazione”.
Secondo l’ultimo bollettino della struttura, il 14 aprile, all’interno del Nomentana hospital rimangono 33 persone positive al covid-19 e 29 operatori sono stati contagiati, mentre, come in altre zone considerate focolaio, sono stati fatti tamponi a tappeto, più di ottocento, sotto la supervisione dell’ospedale Spallanzani di Roma.
In generale, il controllo delle case di riposo e delle Rsa nel Lazio è il tallone di Achille di un sistema sanitario regionale che sembra aver reagito efficacemente all’emergenza. Il Lazio è la quinta regione italiana per numero di tamponi effettuati, circa 70mila (fino al 12 aprile) e il rapporto tra tamponi fatti e contagiati è sceso dal 79,2 per cento del 17 marzo, al 3,3 per cento del 12 aprile. Al momento quindi si registra un contagiato ogni trenta tamponi effettuati, un dato che si unisce a reparti di terapia intensiva non sovraffollati, con circa duecento persone ricoverate su mille posti disponibili.
Di conseguenza il tasso di letalità della malattia nella regione è particolarmente basso e si attesta al 5,8 per cento, molto lontano dal 18 per cento della Lombardia. Il Lazio nella graduatoria delle regioni italiane è tra le più virtuose come l’Umbria e la Basilicata. Presentando i dati sul primo mese di chiusura, l’assessore regionale alla sanità Alessio D’Amato ha detto: “In trenta giorni sono stati 4.429 i casi covid-19 positivi confermati, in prevalenza il 51 per cento di sesso maschile e il 49 per cento femminile. Di questi, il 47 per cento in isolamento domiciliare, il 28 per cento in ricovero ospedaliero e il 4 per cento in terapia intensiva. La diffusione del virus a oggi ha cinturato l’area metropolitana della città grazie alle iniziative prese, l’incidenza nell’area romana è abbastanza uniforme con alcuni picchi in cui l’infezione ha circolato maggiormente”. Il prossimo passo saranno trecentomila test sierologici che daranno priorità al personale sanitario, alle forze dell’ordine e agli ospiti e al personale delle Rsa. “Questo permetterà di creare una prima banca dati omogenea che costituirà una base scientifica per valutazioni, studi e ricerche”.
Case di riposo e residenze sanitarie per anziani sono però i luoghi più a rischio: quasi tutti i focolai e i nuovi casi negli ultimi giorni sono stati registrati proprio all’interno di queste strutture, da Villa Fulvia a Roma, fino alle case di riposo di Fiano Romano, Campagnano o Civitavecchia e Rocca di Papa. Luoghi dove ci si ammala e si muore ancora con troppa facilità.
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