Era il 25 febbraio quando un gruppo di anziani si riuniva per festeggiare il carnevale in un ristorante di Fondi, 130 chilometri a sud di Roma. Era un’altra Italia. L’emergenza legata al coronavirus non aveva ancora spinto il governo ad applicare restrizioni in tutto il paese e a fermare le principali attività produttive. Quella sera il gruppo cena e poi ognuno torna a casa. Pochi giorni dopo alcuni dei presenti cominciano a manifestare sintomi riconducibili al Covid-19 (febbre, difficoltà a respirare). Il 6 marzo cinque persone – due dei partecipanti alla festa e tre dei loro familiari – sono sottoposte a tampone e trovate positive.

Nel giro di poco tempo il contagio si allarga. Due degli anziani muoiono. Tutti gli altri vengono messi in quarantena, così come i familiari e le persone con cui hanno avuto contatti. Ma non basta. Il 20 marzo cinquanta persone sono positive al coronavirus, 192 sono ricoverate in “sorveglianza attiva” e 760 sono in isolamento domiciliare, riferisce l’azienda sanitaria locale. E così la regione Lazio dichiara Fondi zona rossa. Tutto è sospeso al di fuori dei servizi essenziali, degli alimentari e delle farmacie. Non si può né entrare né uscire. Dentro restano 39mila abitanti.

L’unica eccezione alla stretta è il mercato ortofrutticolo (Mof). Con i suoi 335 ettari di estensione, i duecento operatori (tra cui dieci cooperative di produttori che impiegano tremila persone), i dodici milioni di quintali di prodotti che entrano ed escono ogni anno e gli ottocento milioni di euro di fatturato, il mercato è il più grande d’Italia e il secondo d’Europa dopo quello di Rungis, vicino a Parigi. In passato aveva già dovuto fare i conti con problemi legati all’uso dei fitofarmaci e alle infiltrazioni mafiose. Ma ora la sfida è molto più grande. Quello che è in corso al Mof è un gioco di equilibrio tra la salute pubblica e la necessità di non fermare una filiera che porta migliaia di prodotti nei mercati e quindi sulle tavole delle persone, in un contesto di chiusura totale dell’area circostante.

Le preoccupazioni
Dal 20 marzo sono state previste delle “misure urgenti di tutela della salute pubblica” anche per il mercato. I cancelli sono chiusi al pubblico dalle 14, tutti i lavoratori hanno l’obbligo di indossare guanti e mascherine, sono vietati gli assembramenti all’interno ed è stato creato un percorso stradale per permettere ai tir di andare e venire liberamente. Inoltre ai trasportatori, ai facchini, ai concessionari degli stand e ai dipendenti è misurata la febbre all’ingresso, così da evitare che il virus entri nel mercato.

Il 23 marzo il concessionario di un banco aveva la febbre alta. Sottoposto a tampone, è risultato positivo al covid-19 e lo stand è stato chiuso. La notizia del primo caso di coronavirus nel mercato ha seminato inquietudine tra gli operatori. La Strafrutta, una delle ottanta aziende di distribuzione, trasformazione, produzione e riparazione di macchinari ha deciso di chiudere perché “non è più possibile garantire la salute di tutti”, ha spiegato la titolare Marialucia Stravato.

L’ingresso del mercato, il 12 settembre 2019. (Andrea Sabbadini, Buenavista)

Il presidente dell’associazione dei grossisti Elio Paparello non nasconde la preoccupazione. “Non siamo in prima linea come i medici, ma qui ci sono migliaia di persone che lavorano in silenzio per garantire che i banconi dei supermercati siano sempre riforniti”, dice. Se i contagi dovessero aumentare, la scelta della Strafrutta potrebbe non rimanere isolata e le vendite rischierebbero di crollare, con conseguenze enormi per l’intera filiera agroalimentare italiana.

Al Mof arriva gran parte della frutta e della verdura prodotta nel centro-sud d’Italia. A cominciare dal vicino agro pontino, dove le produzioni in serra non si sono mai fermate e neppure lo sfruttamento dei lavoratori migranti – in gran parte indiani sikh – come ha denunciato il sociologo Marco Omizzolo in un articolo pubblicato il 19 marzo 2020 sul quotidiano il manifesto.

Nel caso di uno stop forzato alle attività, finirebbero al macero i kiwi di Latina e i broccoli romaneschi, le zucchine coltivate nelle serre dell’agro pontino e pure i frutti tropicali, le fragole alpine e gli asparagi peruviani

Calo degli acquisti
Gli operatori segnalano un calo degli ordini d’acquisto che oscilla tra il 20 e l’80 per cento, a seconda dei prodotti distribuiti e della loro destinazione. Confagricoltura ha denunciato un crollo del 70 per cento delle esportazioni all’estero. In particolare, Regno Unito, Polonia e Ungheria hanno rimandato indietro interi carichi di prodotti alimentari perché provenivano da un’area ad alto contagio. Il presidente del Mof Roberto Sepe ha cercato di correre ai ripari spiegando che “le prove scientifiche fornite dall’autorità europea per la sicurezza alimentare e dal ministero della salute italiano hanno escluso che il virus possa essere trasmesso con il cibo”.

Paparello stima il calo del volume d’affari tra il 30 e il 40 per cento, addossando la responsabilità in buona parte alla concorrenza della grande distribuzione organizzata, che sempre più “si rifornisce direttamente dai produttori”, imponendo loro i prezzi e la quantità di merce da fornire. Un’altra ragione, a suo dire, è “la chiusura imposta dai decreti ai mercati locali e le difficoltà dei negozi più piccoli, come le botteghe”, alle quali era destinato circa il trenta per cento della frutta e della verdura del Mof.

Il mercato ortofrutticolo di Fondi, il 12 settembre 2019. (Andrea Sabbadini, Buenavista)

Inoltre, da pochi mesi il mercato era aperto – due pomeriggi a settimana – anche ai consumatori, che potevano venire a comprare i prodotti a prezzi da ingrosso. L’obiettivo era attirare, più che gli abitanti di Fondi e dintorni, i turisti che d’estate affollano le spiagge del Circeo, ma l’ordinanza della regione ha posto fine all’esperimento.

Che i grandi mercati all’ingrosso di frutta e verdura siano sempre più spesso scavalcati dai colossi della vendita di prodotti alimentari non è un fenomeno nuovo. Il virus lo ha solo reso più evidente. “Già nell’ultimo decennio c’era stata una flessione del diciotto per cento dei volumi commercializzati e delle presenze”, spiega il direttore Sepe, che conferma il calo di vendite e le cifre fornite da Paparello. I piccoli concessionari che avevano uno spazio all’interno del Mof hanno progressivamente dismesso l’attività, anche se “negli ultimi mesi stavamo assistendo a una piccola ripresa, soprattutto della produzione”, dice.

Il merito era stato delle esportazioni all’estero e della promozione di prodotti locali di qualità. Un esempio è il pomodoro Torpedino, un piccolo San Marzano di origini siciliane che cresce vicino al mare e che grazie alla produzione in serra non conosce stagionalità. Impacchettato da aziende familiari come quella dei Vaccaro (marito, moglie e due figli che si definiscono “sarti dell’ortofrutta”), messo in confezioni deluxe da cinque pomodori ognuna, fino a qualche settimana fa era destinato ai costosi magazzini londinesi Harrods. Lì erano inviate anche le passate e la polpa confezionate in scatole che ricordano la Campbell’s soup di Andy Warhol. Ma dopo la serrata decisa il 23 marzo dal premier britannico Boris Johnson, Harrods ha parzialmente chiuso i negozi, e così anche il Torpedino, così come tanti altri prodotti del mercato, rischia di rimanere invenduto.

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