10 maggio 2017 17:23

Gentile bibliopatologo,
fin da bambina ho nutrito una sana bibliofilia e il merito tocca a mia madre. La sera mi metteva a letto e il repertorio delle storie spaziava dalle mitiche avventure di Odisseo alla fantasmagorica follia di Orlando, dalle fiabe italiane di Calvino alle favole dei fratelli Grimm. Insomma, il “gene della bibliofilia”, sempre che esista, lo ha innestato lei in me. Avendo raggiunto ventun anni e lei cinquanta, l’idillio è finito. Le propongo Flaubert, Vittorini, Buzzati, tutti autori che un tempo adorava, ma non riesce più a leggerli (per non parlare dei poeti). Gli unici libri che arriva a finire sono quelli che considero “romanzi da sedia a sdraio”. Esiste la menopausa letteraria?

–Maius Nefas

Cara Maius Nefas,
l’etichetta diagnostica di menopausa letteraria mi piace a tal punto che correrei ad assegnarti una borsa di studio per un dottorato di ricerca presso il nostro istituto bibliopatologico, se non fosse che non esiste l’istituto, non esiste il dottorato, non esiste la bibliopatologia e soprattutto non esiste la borsa (ne ho una, ma è vuota).

I casi meglio documentati riguardano tuttavia l’andropausa, il calo del testosterone del lettore. La confessione più straziante risale al 1865, il paziente era Stéphane Mallarmé: “La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri!”. Quel verso dava voce al grande male di tutta un’epoca, che si estende, grosso modo, dalla seconda metà dell’ottocento ai primi decenni del novecento: la nausea dell’intelligenza, della lucidità, degli eccessi dell’erudizione, di una coscienza troppo acuminata di sé e del mondo.

Il morbo era stato incubato dal Faust di Goethe, che entrava in scena proclamando di volersi “strappare ai fumi spessi del sapere”, e si era aggravato generazione dopo generazione fino al Faust di Pessoa, che dopo aver bevuto fino in fondo il calice del pensiero l’aveva visto vuoto e aveva provato orrore. La letteratura di quella lunga stagione appare come un vasto sanatorio di annoiati cronici dalla milza ipertrofica, impazienti di togliersi le bende e le ingessature dell’erudizione libresca per ritrovare il contatto con la realtà – tramite la droga, la religione, l’esoterismo, la vita avventurosa, la guerra, l’erotismo, la militanza politica.

Vorrei consigliarti un bel saggio sull’andropausa letteraria, La grande noia di George Steiner (lo trovi in un volumetto dal titolo Nel castello di Barbablù). Steiner colloca le radici del “grande ennui” negli anni del dopo Waterloo e conclude che intorno al 1900 lo spirito fiaccato dallo spleen aveva sete di un fuoco purificatore, prestando ascolto al grido angoscioso e profetico di Théophile Gautier: “Plutôt la barbarie que l’ennui!”. La barbarie sarebbe arrivata di lì a poco sotto forma di due guerre mondiali, non certo per colpa dei poeti e dei letterati; ma se tanti di loro si gettarono con malsano entusiasmo nelle trincee era anche per sfuggire alla morsa gelida dell’intelligenza e al peso delle troppo letture.

Come avrai intuito, il problema dell’andropausa e della menopausa letteraria non sta tanto nell’eziologia o nei sintomi, quanto nei disperati tentativi di autoguarigione messi in opera da chi ne è affetto. Quanto all’origine del morbo, forse non è difficile individuarla: è la conseguenza di un eccesso di testosterone letterario o, per dirla più poeticamente, la risacca di un’onda smisurata. Solo chi abbia creduto troppo nelle promesse della letteratura può esserne disilluso a tal punto da imbracciare le armi, aderire ciecamente a qualche causa e gettarsi a capofitto nella vita (che gli si rivelerà, spesso, come un’ultima chimera letteraria).

Ci sono allora vie d’uscite che non siano socialmente pericolose? I migliori esempi che mi vengono in mente sono quelli immaginati da Guido Gozzano. C’è l’avvocato che sogna la placida vita piccoloborghese del farmacista del borgo dove vive la Signorina Felicita; e c’è Totò Merumeni che, pur corroso da un “lento male indomo”, ossia l’autopunizione inflitta dall’intelligenza e dalle “opere d’inchiostro”, si ritrova “quasi felice” in compagnia di una bertuccia di nome Makakita e soprattutto di una cuoca diciottenne – perché non è detto che la carne debba esser triste, una volta letti tutti i libri.

Tua madre mi pare aver trovato una soluzione simile. Per qualche ragione, a cinquant’anni non crede più alle promesse dei libri. Ma tutto sommato quelli che chiami “romanzi da sedia a sdraio” non sono la risposta più pericolosa al calo dell’estrogeno letterario. Pensaci. Poteva entrare in Scientology. Poteva sintetizzare metanfetamine e diventare una regina del narcotraffico internazionale. Poteva arruolarsi nel gruppo Stato islamico.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

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