Ancora pochi giorni per vedere la mostra Favoloso Calvino alle Scuderie del Quirinale. Ci vado all’ora di pranzo, tra un treno e l’altro. Le Scuderie sono deserte, sembra di entrare nel castello fatato di Giovannin senza paura, mi aspetto che dai camini piombino giù pezzi di giganti: braccia, gambe, teste che rotolano. I pezzi che metto insieme sono quelli della vita di Calvino, le sue illuminazioni prismatiche, le magie, il lavoro scrupoloso. Ma la mostra è anche il ritratto di una generazione che si chiede “che fare”, e tenta di rimettere a posto i pezzi della società del dopoguerra, devastata dalle bombe. E ora che i pezzi sono di nuovo tutti sparsi, come se l’ordine faticosamente trovato fosse solo l’intonaco di un palazzo che crolla; ora che non c’è una guerra soltanto, ma la guerra è ovunque, anche se talvolta si finge pace; ora c’è un “che fare” a chiamarci, a renderci generazione? O ci rende generazione solo ciò che consumiamo? Mentre corro verso la stazione, mi vengono in mente le parole di un’altra grande lettrice di fiabe, Cristina Campo: “Nelle fiabe, come si sa, non ci sono strade. Si cammina davanti a sé, la linea è retta all’apparenza. Alla fine quella linea si svelerà un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella”. Quello che sembra è spesso un inganno, una prova per chi non ha il coraggio di fidarsi dell’inaffidabile. Fiaba oscura, nespola dura, la paglia e il tempo te la matura.

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Questo articolo è uscito sul numero 1547 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati