C’è Carmen Consoli bambina con il grembiule e un fiocco storto sulla copertina di Volevo fare la rockstar, il suo nuovo disco dopo sei anni di assenza. In una rappresentazione ideale della sua vita, questa foto sarebbe il contraltare di un altro primo piano: dopo l’uscita dalla casa d’infanzia per entrare nel mondo andando a scuola, l’uscita dall’adolescenza di una ragazza che suonava nei club senza un nome, fino a diventare Carmen Consoli a Sanremo nel 1996: questa foto la vedrebbe con i capelli corti e le labbra rosso-viola. Se della prima foto non so niente, della seconda ricordo molto: raramente ho avuto la percezione così delineata di un esordio.

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Andavo alle medie cantando Amore di plastica convinta che anche noi avremmo avuto la nostra Alanis Morrissette, una che avrebbe saputo usare le parolacce in valanghe di melassa, impiantando nei nostri cuori un femminismo accessibile. Mi sbagliavo: Consoli aveva altri riferimenti, con il tempo sempre più orchestrali e mediterranei. Sarebbe stata una rockstar solo a tratti in Mediamente isterica. E per il resto sarebbe stata una lunga dipartita dal pop-rock di Tori Amos per arrivare a Carmen Consoli, come si evince dalla canzone che dà il titolo al nuovo disco: con una base struggente e semiallegra stile Golden brown degli Stranglers ma sotto cloroformio, l’epica di Aida di Rino Gaetano e il senso del ricordo di Alla mia età di Tiziano Ferro. Tutto in chiave minore, e proprio per questo aperta: è così che una canzone diventa l’autofiction in prima persona di tante donne, ma anche un omaggio collettivo all’artista.

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Questo articolo è uscito sul numero 1429 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati