Un docente di storia a cui facevo da assistente nei primi anni duemila un giorno mi chiese d’interrompere quello che stavo facendo e di raggiungerlo alla finestra. Stava osservando una manifestazione di protesta con le mani dietro la schiena, come fanno certi signori davanti ai cantieri. A un certo punto mi disse: “Sai qual è il problema delle vostre manifestazioni? La musica”.

E mi raccontò delle contestazioni a cui aveva partecipato da ragazzo: eleganti, arrabbiate, quasi marziali. Ero consapevole che quell’estetizzazione del passato era un prodotto distorto della memoria: i flashback vengono meglio in bianco e nero, le statue greche sono più belle quando sono nivee e false.

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Del resto neanche io mi riconoscevo molto nelle canzoni che passavano dagli altoparlanti durante le manifestazioni in quel periodo, un miscuglio di dub salentino, Rage Against the Machine e 99 Posse. Però quei brani per me restano a colori, e a ripensarci formano un palinsesto riconoscibile e storicamente sincero.

Il che mi porta a una questione attuale: non c’è un singolo pezzo che io riesca ad associare a questa campagna elettorale. Non so cosa passano ai raduni, alle manifestazioni, mi pare che non ci sia differenza tra quello che va in diffusione negli stabilimenti balneari, nelle radio dei taxi o durante l’apertura dei concerti rispetto a quello che si può sentire durante un comizio di un partito o dell’altro. Non penso sia del tutto vero. Ci saranno sempre i vecchi cavalli di battaglia, ma percepisco una memoria che nasce già storta, senza il delay del tempo. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1479 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati