Quando ho visto che Olivia Rodrigo farà qualche data del tour con le Breeders, da una parte me l’aspettavo – accreditarsi presso l’indie-rock nobiliare di Kim Deal e Tanya Donelly è una mossa intelligente quanto prevedibile – dall’altra mi sono chiesta perché non prendere coraggio e chiamare Avril Lavigne, di cui Rodrigo è la più legittima erede. Forse sarebbe stata una scelta troppo vicina a casa, dato che il loro pop-punk ha una comune matrice genetica, ma è come quando uscì il disco domestico di Fiona Apple, che era bellissimo, ma non ricordava solo Yoko Ono o Steve Reich, ricordava anche alcune cose di Tori Amos degli anni novanta.

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Nel gioco dei riferimenti, ci sono evidentemente delle cose di cui ci si vergogna, e che suscitano timidezza nei critici ancor prima che negli artisti in questione: perché mai ci si ricorda di canzoni o album “medi” del genere? Come quando si ha una cotta per qualcuno e ci si vergogna di confessare che si ricorda tutto di quella persona, perfino il colore dell’involucro della caramella che ha scartato la prima volta che siete usciti insieme.

Quel che mi piace di Ariete è l’esplicita assenza di questa vergogna, anche se nei suoi atti di denudamento resta una fragilità, come si evince anche da Rumore, singolo che anticipa il suo prossimo album La notte. È proprio la sua schiettezza o la sua capacità di scatenare l’incidente progressivo dell’intimità a far sì che, malgrado la riconoscibilità delle sue basi o dell’it-pop più gentile, Ariete abbia una personalità così netta e sia una cantautrice che somiglia soprattutto a se stessa. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1530 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati