Non c’è tema più importante dell’alimentazione, purtroppo sviato da falsi miti e pie illusioni. Dal modo in cui mangiamo dipende la sopravvivenza dell’umanità oltre il secolo in corso, ma non riusciamo neanche a parlarne in modo razionale.

Chiara Dattola

Il cibo, infatti, ha la straordinaria capacità di trasformare le persone più progressiste in reazionarie. Chi è disposto ad accettare grandi cambiamenti politici e sociali rifiuta a priori l’idea di modificare la propria alimentazione.

C’è qualcosa che ostacola una discussione seria e spinge scrittori del settore, chef stellati e perfino ambientalisti a suggerire soluzioni alla crisi che creano più danni di quelli che dovrebbero risolvere. Le proposte, tra cui la pasture-fed meat (carne ottenuta dalla macellazione di bovini allevati al pascolo), con il suo insostenibile fabbisogno di terreni, sono impraticabili se non vogliamo distruggere i pochi ecosistemi incontaminati rimasti.

Molti libri per bambini in età prescolare parlano di fattorie. Non somigliano affatto agli impianti industriali che producono la carne, i latticini e le uova che consumiamo, tutti posti spaventosi. Descrivono invece un idillio tra gli allevatori e i loro animali, alimentato da migliaia di anni di poesie pastorali e tradizioni religiose: la fattoria come luogo armonioso in cui rifugiarsi nei momenti d’inquietudine.

Buona parte del dibattito pubblico sull’alimentazione e gli allevamenti risente di quell’illusione. La conseguenza è che molte proposte per risolvere la crisi alimentare globale puntano sulla riscoperta di sistemi produttivi medievali, che dovrebbero sfamare la popolazione del ventunesimo secolo. Non può finire bene.

In questa fase tra gli appassionati di cucina si è diffusa l’ossessione dei polli ruspanti allevati in libertà. I polli, dicono questi neoromantici, dovrebbero seguire il bestiame al pascolo e mangiare gli insetti che si nutrono dei loro escrementi. Come nei libri per bambini, gli animali della fattoria interagiscono tra loro. Il pollo, però, è un volatile onnivoro della famiglia dei fagiani. Proprio quando si cominciano a vedere i danni provocati dalla decisione di liberare i fagiani nelle campagne (mangiano piccoli di serpente, rane, bruchi, ragni e piantine) i nostalgici vorrebbero fare altrettanto con i polli, che per sfamarsi distruggerebbero gli ecosistemi. In realtà non possono sopravvivere in natura, e continuano a cibarsi di soia, spesso coltivata in quelle che erano la foresta e la savana tropicale del Cerrado, in Brasile.

Succede quando s’ignorano i dati reali. Le utopie diventano modelli alimentari, a prescindere dalla loro sostenibilità. Il romanticismo bucolico può sembrare innocuo, ma se applicato finisce per causare fame e danni ambientali su vasta scala.

Il furto delle terre

Gli allevamenti delle favole non hanno mai funzionato. La diffusione della carne nell’ottocento è stata resa possibile dalla colonizzazione dell’Australia e delle Americhe, e dalla creazione, soprattutto da parte dell’impero britannico, di un sistema per trasferire la carne nei paesi ricchi. Gli allevamenti di bovini e ovini alla base della nostra cosiddetta dieta tradizionale hanno prodotto il furto delle terre degli indigeni e la distruzione degli ecosistemi, una pratica che continua ancora oggi. Qualsiasi obiezione alle favole è percepita come un attacco alla nostra identità.

Le soluzioni alla crisi alimentare non sono né piacevoli né confortanti. Chiamano in causa le fabbriche (e tutti odiano le fabbriche, no?). Quasi tutto ciò che mangiamo è passato attraverso almeno una fabbrica prima di arrivare nei nostri piatti. Ma continuiamo a rifiutare la realtà: da un sondaggio condotto negli Stati Uniti, dove il 95 per cento della popolazione mangia carne, è emerso che il 47 per cento degli intervistati vorrebbe vietare i macelli.

La risposta non è aumentare i pascoli, che significherebbe distruggere altri ecosistemi, ma avere fabbriche migliori, di dimensioni ridotte, meno crudeli e inquinanti. Una possibile soluzione (orrore!) è passare dagli allevamenti di organismi multicellulari (piante e animali) a quelli unicellulari (microbi), un cambiamento che ci permetterebbe di fare molto di più con molto meno. ◆ sdf

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Questo articolo è uscito sul numero 1516 di Internazionale, a pagina 109. Compra questo numero | Abbonati