Durante un viaggio di lavoro in Tunisia ho visitato un piccolo cimitero su un promontorio. Su ogni lapide, bianca e, come da tradizione iconoclasta islamica, senza fotografie, c’erano dei vasetti simili a dei posacenere. Incuriosito da quegli oggetti di cui non riuscivo a immaginare la funzione, ho scoperto, grazie a un amico del posto, che le ciotole sono riempite con acqua o semi affinché gli uccellini possano arrivare sulle lapidi e fermarsi per un po’ a bere e mangiare. “Perché le anime dei morti possano sempre essere visitate da altre vite”, mi ha spiegato il mio amico. Il modo in cui gestiamo la morte, in occidente, è strano: cimiteri simili a supermercati nelle periferie delle città isolano i nostri cari scomparsi da ogni contatto con il mondo circostante. Lì, invece, su un promontorio nel nulla da cui riuscivo a vedere ciò che resta di Cartagine e la punta più estrema della Sicilia occidentale, le vite degli animali del cielo e quelle dei morti della terra si tenevano insieme in uno strano e pacifico incontro. Il filosofo Ludwig Wittgenstein sosteneva che “la morte non è un evento della vita” e che “all’avvenire di questa il mondo cessa”. Certo, il mondo del vivente termina con la morte, ma la vita degli altri continua e interagisce con ciò che resta di quel vivente: gli uccelli mangiano e bevono dove prima albergavano sogni e desideri ora finiti chissà dove. Altri animali raccolgono ciò che ne resta e forse, per dirla con un verso dell’ultimo album di Franco Battiato, è così che “torneremo ancora”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1516 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati