Bisogna festeggiare: l’American economic association (Aea), la principale organizzazione di settore degli economisti statunitensi, ha appena assegnato la medaglia Clark a Gabriel Zucman per il suo lavoro sulla concentrazione della ricchezza e l’evasione fiscale. Il riconoscimento, destinato ogni anno a un economista sotto i quarant’anni, gli è stato dato in particolare per i suoi studi innovativi sull’evasione fiscale dei ricchi perfino nei paesi scandinavi, considerati generalmente dei modelli virtuosi. Lo studioso ha svelato l’insospettabile livello di diffusione dell’evasione fiscale tra multinazionali di tutto il mondo.

Attualmente direttore dell’Osservatorio fiscale europeo, Zucman mette la stessa energia tanto nel trovare i guasti quanto nel trovare le soluzioni. In uno dei suoi primi rapporti, l’Osservatorio ha dimostrato che i paesi dell’Unione europea potrebbero aumentare l’aliquota minima del 15 per cento sui profitti aziendali fissata dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), considerata troppo bassa e facilmente aggirabile, senza attendere l’unanimità. Imponendo a ogni multinazionale che vuole esportare beni e servizi una tassa del 25 per cento sui profitti – la stessa pagata dalle aziende con sede nel suo territorio – la Francia incasserebbe, per esempio, 26 miliardi di euro in più e incentiverebbe altri paesi a fare lo stesso.

La comunità accademica comincia a rendersi conto di quanto l’attuale modello sociale e fiscale sia insostenibile, anche se in realtà non c’è mai stata unanimità sull’argomento

È importante che l’American economic association abbia scelto di premiare queste ricerche. Dimostra che lo zoccolo duro della comunità economica comincia a rendersi conto di quanto l’attuale modello sociale e fiscale sia insostenibile. Il mondo degli economisti in realtà è sempre stato meno monolitico di quanto s’immagina, perfino negli Stati Uniti. Nel 1919 il presidente dell’Aea, Irving Fisher, scelse di dedicare il suo discorso d’insediamento alla questione delle disuguaglianze. La crescente concentrazione della ricchezza, spiegò ai colleghi, sarebbe diventata il principale problema economico degli Stati Uniti e rischiava di raggiungere i livelli dell’Europa, all’epoca considerata un’oligarchia. In questo contesto, a partire dal 1918-1920, sotto il mandato del democratico Woodrow Wilson, gli Stati Uniti cominciarono ad applicare aliquote superiori al 70 per cento alla fascia più alta dei redditi, prima di tutti gli altri paesi. Quando Franklin Delano Roosevelt fu eletto nel 1932, il terreno era già fertile per attuare una progressività fiscale di ampia portata, con la famosa Victory tax dell’88 per cento nel 1942 e del 94 per cento nel 1944.

Queste lezioni purtroppo sono state dimenticate e a partire dagli anni ottanta e novanta gli Stati Uniti e molti altri paesi sono entrati in una nuova spirale oligarchica. Sarebbe esagerato attribuire tutte le responsabilità agli economisti. Se la controffensiva lanciata a partire dagli anni sessanta da Milton Fried­man e Friedrich von Hayek ha avuto la meglio è stato anche perché cittadini e movimenti sociali e operai non si sono appropriati delle istituzioni del New deal di Roosevelt.

La battaglia intellettuale si è poi spostata nei dipartimenti di filosofia: John Rawls nel 1971 con il saggio Una teoria della giustizia (Feltrinelli 1982) pose le basi concettuali di un ambizioso programma ugualitario che però è rimasto teorico. Nello stesso periodo Friedman e von Hayek perseguivano con precisione chirurgica l’obiettivo di demolire la progressività fiscale.

Gli economisti però hanno una responsabilità particolare nella deregolamentazione e liberalizzazione degli ultimi decenni. Si vedono chiaramente gli effetti legati alla ricerca di finanziamenti privati, che tende a far virare a destra i loro ragionamenti. Nel 2016, quando i democratici Bernie Sanders ed Elizabeth Warren hanno rilanciato delle proposte audaci di tassazione sui patrimoni (con aliquote fino al 6-8 per cento all’anno per patrimoni superiori al miliardo di dollari), l’ex segretario del tesoro di Bill Clinton e presidente di Harvard Larry Summers, nonché cantore della liberalizzazione dei flussi di capitale, non ha esitato a scagliarsi contro i ricercatori come Zucman, favorevoli a queste proposte.

Ci sono poi delle ragioni strettamente intellettuali legate all’evoluzione della disciplina economica. Per ammantarsi di un fascino scientifico tutto suo, l’economia ha avuto la tendenza a prendere le distanze dalla storia e dalla sociologia, e a personificare le istituzioni studiate (il mercato, la proprietà, la concorrenza), tralasciando però il contesto sociale e politico. I modelli matematici possono essere utili se sono usati in modo consapevole e non sono fine a se stessi.

La statistica può servire, a patto che non si perda di vista lo sguardo critico. C’è ancora molta strada da fare perché l’economia politica e la storia economica tornino a occupare il posto che meritano all’interno delle scienze sociali. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1512 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati