28 maggio 2015 11:26

A ogni ticchettio di lancetta dei secondi circa 6-7 metri quadrati di Italia finiscono sotto un’onda grigia di cemento. È quanto emerge da Il consumo di suolo in Italia, l’ultimo rapporto dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.

Lo studio traccia il ritratto di una penisola in trasformazione: se negli anni cinquanta il suolo consumato ammontava al 2,7 per cento, oggi a essere sigillata è il 7 per cento della superficie nazionale. Ma se si escludono i terreni non edificabili (corpi idrici, aree a più di 600 metri di altitudine o ad alta pendenza) il contatore del consumo effettivo sale al 10,8 per cento.

E se è vero che negli anni recenti il ritmo è leggermente rallentato rispetto al boom degli anni ottanta, negli ultimi 25 anni il suolo consumato ha superato i 200 chilometri quadrati all’anno: una superficie più grande di quella di Milano e pari al doppio di Firenze. Sono 55 ettari al giorno: l’equivalente di 79 campi da calcio.

Le cose cambiano di provincia in provincia. Le tre più cementificate sono Monza e Brianza (34,7 per cento), Napoli (29,5 per cento) e Milano (26,4 per cento). Quelle meno: Matera (1,7 per cento), Aosta (1,6 per cento) e Ogliastra (1,5 per cento).

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Ma i conti diventano più inquietanti se si guardano i terreni a ridosso del mare. Dal censimento delle aree a meno di 300 metri dalla linea di costa si scopre che il 19,4 per cento del litorale italiano, ovvero l’equivalente dell’intera costa sarda, è stato sigillato. Tra le regioni che in termini percentuali hanno perso più litorale appaiono le Marche e la Liguria, rispettivamente con il 42 per cento e il 40 per cento di costa persa tra cemento e asfalto.

“Non mi aspettavo un dato così alto”, racconta l’ingegnere Michele Munafò, coordinatore del rapporto Ispra, in un’intervista ad Altreconomia. “Ricordo che le aree costiere al di là dell’aspetto produttivo, legato alla fertilità dei suoli, sono molto importanti dal punto di vista paesaggistico, oltre a rappresentare spesso aree delicatissime, che dovrebbero essere salvaguardate”.

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C’è poi la sicurezza idrogeologica. Secondo l’ultimo rapporto dell’Associazione nazionale dei costruttori edili (Ance) circa un italiano su dieci vive in zone ad alta criticità idrogeologica. Stime che riflettono il dato Ispra, secondo cui delle superfici consumate in Italia circa l’8,94 per cento si trova in zone ad alto rischio idraulico.

Ed è un circolo vizioso, perché più si cementifica più aumenta il rischio di frane e alluvioni. “L’impermeabilizzazione comporta un aumento del rischio idrogeologico, soprattutto in termini di inondazioni”, spiega Michele Munafò, uno degli autori del rapporto dell’Ispra. “Un suolo compromesso dall’espansione delle superfici artificiali e impermeabilizzato non è più in grado di trattenere una buona parte delle acque di precipitazione atmosferica e di contribuire, pertanto, a regolare il deflusso, con il conseguente aumento di alluvioni e frane”.

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Il 41 per cento dell’impermeabilizzazione è dovuto a strade e altre infrastrutture di trasporto, il 31 per cento a edifici e il restante 28 per cento a tutto il resto che si può immaginare. “Il territorio e il paesaggio vengono quotidianamente invasi da nuovi quartieri, ville, seconde case, alberghi, capannoni industriali, magazzini, centri direzionali e commerciali, strade, autostrade, parcheggi, serre, cave e discariche, comportando la perdita di aree agricole e naturali ad alto valore ambientale”, si legge nel rapporto. Non a caso l’onda grigia ha ricoperto finora 34mila ettari di zone protette.

Molte nuove costruzioni rientrano nel fenomeno dell’abusivismo edilizio. Legambiente nel suo rapporto Ecomafie ha contato 127mila crimini nel ciclo del cemento in Italia tra il 1992 e il 2013. E per capire la diffusione dell’abusivismo si può pensare che solo nel 2013 il Centro ricerche economiche sociologiche e di mercato nell’edilizia (Cresme) ha censito 26mila nuovi alloggi abusivi (il 16,5 per cento di quelli costruiti). Di questi, Legambiente stima se ne siano abbattuti nel 2013 solo 12.

Eppure di misure per mitigare gli effetti negativi del fenomeno ce ne sarebbero. Oltre a maggiori controlli e restrizioni su aree ad alto valore agricolo o paesaggistico, Michele Munafò sottolinea il potenziale delle politiche di riuso. Per svilupparle servirebbero, nell’ordine: un censimento degli edifici vuoti, più incentivi all’affitto e sussidi per il recupero di siti abbandonati e contaminati.

Dopodiché – sempre secondo i suggerimenti di Munafò – si potrebbe scegliere di costruire su suoli di minore qualità e adottare misure per conservare almeno alcune funzioni del suolo (come le superfici permeabili nelle aree di parcheggio o i tetti verdi). Infine, bisognerebbe promuovere politiche di compensazione: se proprio non si può fare a meno del cemento, che almeno si restituiscano altri terreni impermeabilizzati, magari inutilmente o abusivamente.

Correzione 2 novembre 2015
Nella versione precedente di questo articolo si riportavano “126mila nuovi alloggi abusivi nel 2013”. Gli alloggi abusivi censiti dal Cresme sono invece 26mila.

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