16 dicembre 2015 16:13

Abbiamo chiesto a cinque giornalisti e collaboratori di Internazionale i loro cinque album preferiti del 2015. Ecco le loro scelte.

Kendrick Lamar, To pimp a butterfly (Interscope)
To pimp a butterfly è un album di contaminazioni: dal funk di Sly and the Family Stone al cinema di Spike Lee. È un disco politico, che riflette sulla condizione della comunità afroamericana statunitense, ma è anche la storia di un conflitto interiore. Un disco imperdibile, anche per chi non è un purista dell’hip hop.

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Panda Bear, Panda Bear meets the grim reaper (Domino)
Uno dei migliori dischi solisti della carriera di Panda Bear, musicista degli Animal Collective. Solido dal punto di vista ritmico, ispirato da quello melodico.

Shye Ben Tzur, Jonny Greenwood and The Rajasthan Express, Junun (Nonesuch)
Un grande album di musica etnica, registrato in India dal chitarrista dei Radiohead con il compositore israeliano Shye Ben Tzur e il gruppo locale The Rajasthan Express. Jonny Greenwood non è al centro della scena, ma la sua chitarra aggiunge modernità all’insieme.

Father John Misty, I love you Honeybear (Sub Pop)
Il racconto di una storia d’amore, di una crisi diffusa delle coscienze. Canzoni che raccontano i muti subprime e il nuovo fallimento del sogno americano, senza la rabbia di Bruce Springsteen ma con molta ironia.

Blur, The magic whip (Parlophone)
Quello che stupisce dei nuovi Blur è che sono ripartiti esattamente da dove avevano lasciato, con la loro ostentata britishness e la voglia di cazzeggio che solo le band con le spalle larghe possono permettersi. Bello risentire la voce di Damon Albarn accompagnata dai riff di Graham Coxon.

Brad Mehldau, 10 years solo live (Nonesuch)
Oltre quattro ore di musica sublime per pianoforte solo, un repertorio che va da Harold Arlen ai Nirvana, non un minuto di musica sprecato. Mehldau è un genio e questo album un capolavoro.

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Yemen Blues: Insaniya (Inzima)
Musica tradizionale ebraica yemenita, funk, soul, afrobeat: tutto si mescola e ribolle in questo straordinario minestrone cucinato dalla band israeliana sotto la guida del capocuoco Bill Laswell. Divertimento assicurato, specie se ascoltato a tutto volume.

John Scofield: Past present (Impulse)
Scofield torna ai fasti di album straordinari come Hand jive e Groovelation in questo nuovo lavoro, dove unisce la sua grande abilità chitarristica a una sicurezza di scrittura che lo pone tra i grandi autori di oggi. Con lui ci sono Joe Lovano, Larry Grenadier e Bill Stewart, che fanno scintille.

Morton Feldman, Rothko chapel (Ecm)
La migliore registrazione disponibile del capolavoro di Feldman Rothko chapel (un brano che dovrebbe essere obbligatorio nelle scuole come I promessi sposi) accompagnata a sensibili esecuzioni pianistiche della musica di Cage e Satie. Musica per riflettere e pensare al di fuori da ogni prospettiva ovvia.

Bob Dylan, Best of the cutting edge (Sony)
Il periodo di Bringing it all back home e Blonde on blonde è senz’altro quello in cui la genialità poetica di Dylan ha raggiunto livelli di massima intensità, illuminando una intera generazione (e non solo). Questo cofanetto di inediti del 1965/1966 ne è eloquente testimonianza.

Jamie xx, In colour (Young Turks)
Chissà perché la musica dance più bella è quella che si porta dietro un po’ di tristezza. Con questo album di debutto, il produttore/dj londinese Jamie Smith (già fondatore della band The xx) fa un’elettronica notturna, piena di citazioni della cultura rave anni novanta.

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Algiers, Algiers (Matador)
Ultimamente si parla molto del rapporto tra neri e punk rock. Questo debutto degli anglostatunitensi Algiers sembra proprio una riflessione su questo tema. Gli Algiers fanno blues/gospel con sonorità postpunk e incursioni nel rumorismo industrial. Il loro è il suono più originale e dirompente che abbia sentito quest’anno.

Future Brown, Future Brown (Warp)
Future Brown è un collettivo di produttori formato dalla musicista elettronica e artista visiva kuwaitiana Fatima Al Quadiri, dal duo di Los Angeles Nguzunguzu e dal dj inglese J-Cush. In questo album mettono insieme una playlist per un party globalizzato del futuro. Sembra di essere in un reboot musicale di Blade runner.

Shamir, Ratchet (Xl)
Dalla città più finta del mondo, Las Vegas, è arrivata la popstar del futuro. Ed è tutto meno che finta. Shamir, 21 anni, è già autore, produttore e canta con perfetta voce da controtenore. Non si definisce gay semplicemente perché non si sente né maschio né femmina e il suo è un pop meticcio e ironico.

Kendrick Lamar, To pimp a butterfly (Interscope)
Il terzo album del rapper californiano linguisticamente è una summa, aggiornata al 2015, di tutti gli stili afroamericani possibili. E arriva dritto al problema: come far tornare rilevante una forma d’arte ormai digerita dal mainstream? To pimp a butterfly è la sua risposta.

Per chi vuole farsi una discoteca classica seria, oggi c’è un alleato: la crisi del disco, che porta le etichette a sfornare cofanetti pieni di grande musica in esecuzioni di livello assoluto, a prezzi sempre più bassi. Eccone cinque, evitando quelli più giganteschi (come il tutto Glenn Gould o tutto lo Stravinskij diretto da Stravinskij, due megascatole Sony Classical). Per giunta lo streaming della musica classica è scomodo, questi bei cd no.

Svjatoslav Richter, Complete Rca and Columbia album collection (Sony Classical, 18 cd)
Questo è lo scatolone dell’anno. Ne ho già parlato abbastanza qui.

Emil Gilels, The complete recordings on Deutsche Grammophon (DG, 24 cd)
Il 2016 sarà il centenario di Emil Gilels, un altro pianista indiscutibilmente immenso. Ecco tutte le sue registrazioni più mature. Cambiano la vita di chi le ascolta. Io avevo già tutti i dischi ma mi sono comprato lo stesso questo box, perché sono ordinati bene e perché è una scusa per riascoltarli un’altra volta.

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Quartetto Italiano, Complete Decca, Philips & DG recordings (Decca, 37 cd)
L’integrale di Beethoven del Quartetto Italiano è da più di quarant’anni un punto di riferimento discografico. Tutto il resto è allo stesso livello, e molti di questi dischi erano irreperibili da troppo tempo.

Nikolaus Harnoncourt, Complete Beethoven recordings (Warner Classics, 14 cd)
Dopo una sessantina d’anni di onorata carriera, il maestro Harnoncourt è appena andato in pensione. Rendetegli omaggio con i dischi che hanno ribaltato la nostra percezione delle sinfonie di Beethoven.

Igor Markevitch, The complete Hmv recordings (Erato, 18 cd)
A 17 anni Markevitch scrisse un concerto per piano su commissione di Djagilev. Era l’inizio di una carriera enorme e avventurosa (c’è anche chi dice che è stato una figura chiave del sequestro Moro). Ha lasciato una testimonianza discografica variopinta. Qui c’è molto: grande musica nota (belle sinfonie di Haydn), grande musica un po’ dimenticata (i Canti di prigionia di Dallapiccola) e un irresistibile Pierino e il lupo con Peter Ustinov in francese.

Steve Coleman, Synovial joints (Pi Recordings)
Il sassofonista statunitense continua a scavare nell’anatomia del groove, stabilendo un complicato parallelo tra le articolazioni sinoviali del corpo umano e la musica. Come spesso accade con Coleman, il teorico spaventa, il pratico affascina e ipnotizza.

Björk, Vulnicura (One Little Indian)
Il dolore raccontato nel dettaglio e messo in musica da Björk con le tinte forti che le sono proprie. Enfatico, drammatico, viscerale e forse anche catartico.

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Julia Holter, Have you in my wilderness (Domino)
Sembra proprio quel vestito da tutti i giorni che ti sei messo sempre, quella strada che conosci a memoria o la pasta che sapevi già fare a dodici anni. E invece no, ad ascoltarlo bene il pop di Julia Holter è pieno di sorprese.

Franco D’Andrea, Three concerts. Live at the Auditorium parco della musica (Parco della musica records)
Franco D’Andrea, tra le voci più originali del nostro jazz, in tre contesti molto diversi: un trio inedito con Dave Douglas e Han Bennink, il suo sestetto e in pianoforte solo. Eleganza, intelligenza e ironia a volontà.

Mutamassik, Symbols follow (Discrepant)
Percussioni mediorientali, beat elettronici, violoncello, frammenti di discorsi e musiche, il tutto miscelato da Giulia Loli, a.k.a. Mutamassik, in uno spazio creativo di convergenza tra New York, la campagna toscana e il Cairo. Mutamassik in arabo significa fortezza, tenacia: musica tagliente, urgente, esplosiva.

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