27 giugno 2016 09:43

Da quando è in carica, papa Francesco ha moltiplicato gli incontri e le proposte senza dare molto peso alle formule diplomatiche. La sua virtù cardinale? La franchezza. Ne ha fornito una nuova prova in occasione del suo viaggio in Armenia, la più antica nazione cristiana (si è ufficialmente convertita al cristianesimo nel 301).

Fin dal suo arrivo a Erevan, il 24 giugno, per una visita di tre giorni, il pontefice ha usato il termine genocidio per descrivere il massacro di circa un milione e mezzo di armeni compiuto dall’impero ottomano nel 1915-1916 e ha pregato per evitare che questa tragedia possa ripetersi.

Ankara ha sempre respinto con forza questa definizione, affermando che turchi e armeni erano stati vittime di una tragedia collettiva molto più vasta. Inoltre il viceprimo ministro turco Nurettin Canikli ha parlato di una “dichiarazione infelice”, che denota una “mentalità da crociato”.

La scelta del papa è ancora più sorprendente in quanto il testo ufficiale del suo discorso non prevedeva la parola genocidio, ma l’espressione molto meno controversa di “medz yeghern”, che in armeno significa “il grande male”.

La strada della riconciliazione
Sabato, in occasione della sua visita al sacrario di Tsitsernakaberd, a fianco del presidente armeno Serž Sargsyan e del patriarca della chiesa armena Karekin II, Francesco ha aggiunto nel libro dei visitatori che la persecuzione degli armeni durante la prima guerra mondiale non deve essere “né minimizzata né dimenticata”.

In questo paese, diventato indipendente dall’Unione Sovietica 25 anni fa (il 23 settembre 1991), il papa ha esaltato i pregi della memoria, “fonte di pace” per il futuro, e ha chiesto di non cedere al “potere illusorio della vendetta”.

Il portavoce della Santa Sede, Federico Lombardi, ha cercato di chiarire il senso delle dichiarazioni del papa, spiegando che non si trattava in alcun modo di cercare di alimentare le tensioni con Ankara, ma di portare i due paesi sulla strada della riconciliazione. Pia illusione?

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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