19 agosto 2023 08:56

Scoprire che un critico definì le poesie di John Keats “banali idiozie” è obiettivamente una delizia. Per non parlare del fatto che Virginia Woolf disse che le opere di James Joyce erano soltanto “fesserie”. Di sicuro nessuno può trattenere l’entusiasmo pensando a quando la critica Dorothy Parker lesse Winnie the Pooh e lo trovò talmente zeppo di stravaganze infantili e sdolcinate da confessare di aver “vomitato”.

Nella vita di un lettore esistono pochi piaceri la cui purezza possa rivaleggiare con quella di una spassosa recensione negativa. Nell’esistenza dello scrittore, invece, la sensazione che provocano è quella di un dolore insopportabile. Dopo la demolizione del suo lavoro firmata da Parker, A.A. Milne non scrisse mai più un altro Pooh “stravagante”, perché per lui la parola stessa, “stravagante”, era diventata “disgustosa”. Dopo il commento sulle sue “banali idiozie”, Keats si tolse ossequiosamente di mezzo. “Spazzato via da un articolo”, scrisse lord Byron.

Nella vita letteraria di oggi soddisfazioni del genere sono sempre più rare. Aprendo la sezione delle recensioni letterarie ci sono ottime probabilità di leggere scrittori che descrivono reciprocamente le proprie opere con termini come “lirico”, “brillante”, “profondo”, laddove in passato era più facile incontrare epiteti come “noioso” e “idiota”.

Nelle pagine delle recensioni emerge quella che uno scrittore ha definito l’inflazione endemica dei giudizi positivi. Un giornalista del sito BuzzFeed ha perfino annunciato che la sezione dedicata ai libri non avrebbe più pubblicato recensioni negative. Una splendida notizia per gli scrittori (e le loro madri) in tutto il mondo, non c’è che dire. Molto meno per i lettori. Il mondo della letteratura potrà evitare di piangere per i poeti feriti dalle recensioni negative, ma dovrà fare i conti con la morte della cosiddetta stroncatura.

La critica è utile

A dire il vero pochi se ne lamenteranno pubblicamente. La critica letteraria non è una vocazione nobile. D’altronde, come dicevano gli antichi, in nessuna città si trova la statua di un critico. Ma è altrettanto vero che poche città hanno dedicato monumenti agli ingegneri delle fogne o ai chirurghi della prostata. Eppure sono stati utili, così come lo sono i critici. Una persona colta può leggere circa venti libri in un anno.

Di contro, soltanto l’anno scorso nel Regno Unito sono stati pubblicati 153mila libri (cifre di BookData). In media sono circa 420 libri al giorno. Tra i titoli pubblicati compare La filosofia delle lacrime. Il pianto nella cultura francese da Cartesio a Sade e Il tuo gatto è uno psicopatico? Certo, è possibile che tutti questi libri meritino di essere definiti “interessanti”. Ma è anche improbabile.

Nell’ambiente letterario c’è un segreto di pulcinella: la maggior parte dei libri fa abbastanza schifo. Allora il compito del critico è quello di setacciarli, innanzitutto fisicamente (il primo, scoraggiante atto della giornata di un critico è quello di ravanare nel sacco pieno di libri recapitato in redazione ogni settimana) e poi figurativamente, attraverso le recensioni. George Orwell, critico di esperienza, sapeva che le recensioni devono per forza essere brutali. Per questo scrisse che “in più di nove casi su dieci l’unica critica onesta dovrebbe essere ‘questo libro non vale niente’, mentre l’unica recensione spassionata dovrebbe essere ‘questo libro non mi interessa in alcun modo e non ne scriverei mai se non fossi pagato per farlo’”.

I critici non si limitavano a colpire un nemico, ma ripulivano le sacre stanze della letteratura

Tuttavia al momento è raro che le recensioni siano pungenti. Alcune testate mantengono la tradizione della critica, ma troppo spesso le recensioni sembrano un complimento dovuto. I giornali sono particolarmente inclini a questo tipo di adulazione e tendono a essere ricchi di parole come “embrionale” e di titoli che somigliano più a una minaccia che a una promessa: “Verso quale Somalia?”, “Strutturalismo addomesticato” o addirittura “Chi ha paura di una lettura impegnata?”. Le stroncature, invece, scelgono uno stile più diretto. In una famosa recensione, il critico Philip Hensher scrisse che un autore era talmente scarso che non sarebbe stato “capace di scrivere ‘bum’ su un muro”.

Un tempo simili sferzate erano molto comuni. In epoca vittoriana “le recensioni erano considerate una forma di igiene culturale, dunque gli standard erano piuttosto elevati”, spiega Robert Douglas-Fairhurst, professore di inglese all’università di Oxford. I critici non si limitavano a colpire un nemico, ma ripulivano le sacre stanze della letteratura. Non che questo impedisse di lasciarsi andare a qualche eccesso dettato da motivazioni personali. Per esempio un recensore definì l’opera di un collega scrittore “sudicia immondizia”, mentre il serioso Alfred Tennyson chiamò un autore “un pidocchio sulle serrature della letteratura”. John Milton, in un momento in cui aveva nuovamente perduto il paradiso, apostrofò un altro scrittore con le parole “barile nauseabondo”.

Per quanto queste esagerazioni siano innegabilmente spassose, le critiche letali tendono a essere più raffinate. Le migliori recensioni negative, infatti, non sono le stroncature sguaiate, ma le stilettate precise, spiega il critico britannico Adam Mars-Jones. “Questo perché se il colpo non è accurato, inevitabilmente farà meno male”. I vittoriani non disdegnavano l’uso dello stiletto. Uno degli affondi più abili fu quello di George Eliot ai danni di Jane Eyre di Charlotte Brönte. “Mi piacerebbe che i personaggi parlassero un po’ meno come gli eroi e le eroine dei rapporti di polizia”.

I recensori moderni raramente riescono a raggiungere questa bellezza. Fin troppo spesso le recensioni sono infarcite di espressioni come “umorismo cupo”, “virulento”, “meditazione profonda”. Molte di queste definizioni – tieniti forte, lettore – sono soltanto eufemismi per “noioso”, una parola che è a tutti gli effetti bandita dalle pagine letterarie. Dunque abbiamo “dettagliato” (noioso), “esaustivo” (molto noioso) e “magistrale” (noioso, ma scritto da un professore, inoltre non l’ho finito quindi non sono in grado di criticarlo). E così via.

Premio stroncatura dell’anno

Internet è una delle cause di questo rammollimento. La rete ha alterato sia l’economia della critica (i giornali si sono rimpiccioliti e hanno poche pagine da dedicare ai libri, dunque i redattori le riempiono con i libri che bisogna leggere e non con quelli che andrebbero evitati) e anche la sua opportunità (gli insulti che un tempo erano divertenti se scagliati nell’immediatezza, vengono a noia quando rimangono online per l’eternità). La tendenza a reclutare recensori specializzati non ha certo aiutato. Se sei uno degli unici due esperti al mondo nella prima scrittura cuneiforme sumera e scrivi una recensione negativa sul libro dell’altro esperto, la cosa potrà anche essere divertente per venti minuti, ma poi te ne pentirai per vent’anni.

Internet ha anche contribuito a intaccare l’anonimato. In passato la maggior parte delle recensioni non era firmata e questo garantiva ai recensori la stessa protezione di un qualsiasi troll moderno. Oggi, invece, quasi tutti i recensori sono non soltanto identificabili, ma anche rintracciabili e dunque attaccabili. Lo scrittore e critico D.J. Taylor sottolinea che se trent’anni fa i critici erano “tacitamente incoraggiati a colpire spietatamente”, oggi siamo tutti “terrorizzati all’idea di offendere qualcuno”, figuriamoci inimicarci un codazzo di seguaci su Twitter.

Ci sono stati diversi tentativi di riportare in auge le critiche al vetriolo. Nel 2012 due critici (di cui uno oggi lavora per l’Economist) hanno lanciato un premio chiamato “stroncatura dell’anno”, “una crociata contro l’apatia, la deferenza e il pensiero pigro”. È durato per tre edizioni. Fleur Macdonald, una dei fondatori, ritiene che “probabilmente la scena letteraria ne avrebbe bisogno oggi più che mai”, ma ammette che sarebbe difficile resuscitare il premio e ottenere una sponsorizzazione, perché “le recensioni negative sono ritenute controverse”.

Di tanto in tanto una stroncatura arriva ancora oggi, ma non per le opere prime o per i libri di autori sconosciuti (sarebbe considerato inutile e crudele) ma per scrittori abbastanza famosi da contrattaccare. Spare, l’autobiografia del principe Harry, è stata stroncata quasi da tutti. Per gli scrittori un esito di questo tipo può essere devastante. Il romanziere Anthony Powell era convinto che tutte le persone rientrassero in una delle due seguenti categorie: “ammiratori” e “merde”. Una delle poesie più famose di Catullo è una riposta ai critici che lo avevano accusato di essere effeminato. “Pedicabo ego vos et irrumabo”, scrisse il poeta latino. La traduzioni a grandi linee è: “Ve lo passerò nel didietro e nella bocca”. Non proprio i toni che si leggono attualmente sul supplemento letterario del Times.

Dunque oggi le spade non brillano. Ma resta il fatto che dovrebbero comunque luccicare, almeno ogni tanto. Forse qualcuno dimentica che il mercato delle recensioni non è costituito né dai critici né dagli autori, ma dai lettori, e i lettori continuano a voler sapere “se fanno bene a spendere 15,99 sterline per un libro”, sottolinea Taylor. Il critico, di conseguenza, ha il “dovere” di dirgli la verità. Tra l’altro, se l’autore non apprezza, resta pur sempre uno scrittore e può difendersi come ha fatto Catullo. Ma forse sentirà l’obbligo di astenersi dalle oscenità, per non rischiare di essere censurato da BuzzFeed.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul sito del settimanale britannico The Economist.

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