09 ottobre 2023 14:02

Il 2023 potrebbe essere ricordato come l’anno in cui uno dei grandi simboli della cultura statunitense è tornato in auge dopo un lungo periodo di declino. Sto parlando del baseball. Da quando seguo con costanza la stampa americana mi imbatto periodicamente in articoli sulla crisi del cosiddetto passatempo nazionale. Ora che è finita la stagione regolare del 2023 e stanno cominciando i playoff della Major league baseball (la principale lega di questo sport), il tono dei commenti è completamente diverso. Il baseball sembra rinato, e la sua parabola recente ci dice molto non solo sulla società statunitense, ma anche sul rapporto che tutti noi abbiamo con il passato e con il cambiamento.

Il problema del baseball, l’elemento fondamentale che ha portato alla sua crisi, è che non sembra uno sport pensato per la nostra epoca. È un gioco con un ritmo lento, in cui le partite possono durare molte ore e sono piene di tempi morti. Nell’era di internet e dei social network si vuole – si pretende – che gli spettacoli d’intrattenimento comincino e finiscano rapidamente, oppure si accettano quelli più lunghi ma a patto di avere il controllo sui tempi della fruizione. Se si pensa che l’obiettivo principale di ogni lega sportiva dovrebbe essere garantirsi un futuro facendo appassionare i bambini e le bambine, è evidente che tutti gli altri sport di squadra che si praticano negli Stati Uniti sono teoricamente posizionati meglio del baseball.

In un articolo uscito a giugno sull’Atlantic, Mark Leibovich ha raccontato una scena di famiglia divertente: “Ricordo che nel 2018 cercai di far appassionare Carlos, un mio nipote che all’epoca aveva 13 anni, alla partita più lunga di sempre delle World series (le finali del campionato), che si era giocata la sera prima. I Los Angeles Dodgers avevano vinto contro i Boston Red Sox per 3 a 2 dopo sette ore e 20 minuti. Carlos mi guardò con il classico sorriso da ‘ok boomer’ (anche se io non sono un boomer!) e tornò a giocare a Minecraft, a fantafootball o a qualsiasi altra cosa stesse facendo”.

Questo contribuisce a spiegare perché nel giro di quindici anni, tra il 2007 e il 2022, gli spettatori annuali alle partite sono passati da 79,5 a 64,5 milioni. Nello stesso periodo sono calati drasticamente anche gli ascolti televisivi, mentre crescevano quelli degli altri sport. Invertire la tendenza sembrava difficile, se non impossibile, perché in ballo c’era anche un potente fattore culturale. Il fascino del baseball è stato costruito nel novecento a partire da personaggi ed eventi mitici, quasi mitologici, ed è stato alimentato da alcuni dei più grandi scrittori americani della storia, come Philip Roth e Don DeLillo. In altre parole, la sua popolarità era garantita da un legame con un passato in cui la rilassatezza dei giocatori e del pubblico, quasi un’apatia, era un valore distintivo rispetto ad altri sport popolari. Quando un’attività è così radicata nella nostalgia e nella tradizione, ogni cambiamento sembra un tradimento.

Qualcuno ricorderà che il baseball ha provato ad aprirsi al nuovo intorno all’inizio degli anni duemila, quando alcune squadre si affidarono ai software per migliorare la selezione dei giocatori e le scelte in campo (una storia raccontata dal film Moneyball). Ma paradossalmente quelle novità hanno peggiorato il problema, contribuendo a introdurre comportamenti, dentro e fuori dal campo, che rallentavano ulteriormente il gioco. Scrive Leibovich: “La cultura del baseball si è evoluta in direzione dei tempi morti. Ogni squadra, per esempio, ha abbracciato il mental-coaching, che incoraggia i giocatori a ‘rallentare il gioco’ con tecniche assortite di respirazione, visualizzazione e rilassamento”.

Il giocatore di baseball Willie Mays con i bambini di Harlem, a New York, nel 1954. (Bettmann/Getty Images)

Nonostante tutto questo, l’ultima stagione mostra che il baseball è riuscito a invertire la dinamica del suo declino. Ha scritto Will Leitch sul New York magazine: “Dopo che le critiche per le partite troppo lunghe e noiose hanno raggiunto il culmine, la scorsa stagione la lega ha modificato radicalmente alcune regole. Per esempio è stato introdotto un limite di tempo per i lanciatori e per i battitori e sono stati vietati gli infield shift, azioni difensive che servono a mettere in difficoltà gli attacchi, di fatto rallentando il gioco”. Si tratta di cambiamenti radicali, paragonabili all’abolizione del retropassaggio o all’introduzione del Var nel calcio.

C’era il timore che le nuove regole avrebbero fatto indignare i puristi del baseball – che costituiscono la base dei tifosi – e indispettito i giocatori. “Invece le modifiche sono state accettate quasi universalmente e persino celebrate da tifosi, giocatori, dirigenti, giornalisti televisivi e arbitri. Eliminati tutti i ritardi, le partite sono diventate più serrate, più veloci e più urgenti, senza perdere gli elementi che rendono attraente questo sport”. Con una media di due ore e 42 minuti, le partite di questa stagione sono le più brevi dal 1984, 24 minuti in meno rispetto al 2022. Il numero di persone negli stadi è aumentato, con sei milioni di tifosi in più rispetto alla scorsa stagione. Anche gli ascolti televisivi sono migliorati. Sono nati nuovi personaggi e nuove storie capaci di far appassionare le persone a questo sport.

In sostanza il mondo del baseball ha smesso di idealizzare il proprio passato, e in questo modo si è garantito un futuro. Un mezzo miracolo, soprattutto di questi tempi. Per natura le persone tendono a ricordare quasi sempre il passato come migliore di come effettivamente è stato, e certamente del presente. La visione del “si stava meglio ai miei tempi” influenza i comportamenti della società nel suo complesso, e quindi anche della cultura e della politica. Queste considerazioni mi hanno fatto tornare in mente un articolo dello scrittore Mohsin Hamid, uscito sul Guardian e su Internazionale nel 2017.

“L’essere umano esiste prima in un determinato momento, poi in un altro, poi in un altro ancora, finché non arriva la fine. Il periodo umano degli atomi che formano il nostro corpo è limitato nel tempo. Prima che nascessimo i nostri atomi appartenevano alle stelle; presto apparterranno alla terra, al mare o al cielo. Sappiamo che con il tempo ogni essere umano cesserà di essere e semplicemente sarà stato. Per questo cerchiamo di resistere al tempo. Ci ribelliamo alla sua autorità. Come gli amanti, siamo attratti dal passato, dai ricordi immaginari, dalla nostalgia”.

Secondo Hamid l’eccesso di nostalgia si manifesta in ogni ambito della nostra società, a cominciare dall’arte. “Negli ultimi tempi, al cinema, i protagonisti sono personaggi creati una o più generazioni fa: supereroi, supercriminali, agenti supersegreti, superavventurieri dello spazio, simboli superironici di un passato supersexy. E in televisione, dove secondo gli esperti oggi ci sono i migliori sceneggiatori, le serie più popolari e acclamate sono ambientate in un passato dove è ancora possibile che i protagonisti siano quasi tutti bianchi. Mi è piaciuto tantissimo Mad men e a mia moglie è piaciuto tantissimo Downton abbey; come molti nostri amici in Pakistan abbiamo seguito e amato queste e altre serie a tal punto che solo casualmente le abbiamo riconosciute per quello che sono, cioè veicoli dell’immaginazione che ci portano verso il passato, lontani da un pianeta che in gran parte non è bianco”.

Quando Hamid scriveva l’articolo le manifestazioni politiche della nostalgia erano dovunque: “Il gruppo Stato islamico e Al Qaeda invocano un ritorno agli splendori immaginari dei primi anni dell’islam. La campagna per la Brexit è stata combattuta a suon di slogan sul riprendersi l’autonomia da Bruxelles e con la promessa di un ritorno agli splendori immaginari del Regno Unito prima che entrasse nell’Unione europea. Appena vinte le elezioni, Donald Trump si è presentato in pubblico con lo slogan ‘make America great again’ ricamato su un cappello da baseball e scandito in coro dai suoi sostenitori, che sognavano un ritorno alla grandezza immaginaria di un’America vincitrice della seconda guerra mondiale. Anche in India e in Cina i leader inseguono un ritorno alle grandezze immaginarie del passato, usurpate da invasori stranieri, colonizzatori e barbari. Tutti questi movimenti, in fondo, sono progetti di restaurazione”.

Perché siamo così attratti dalla nostalgia, si chiedeva lo scrittore? “In parte, credo, perché il passo dei cambiamenti sta accelerando. Nonostante il rapporto sempre più stretto con la tecnologia, dal punto di vista evolutivo l’essere umano è ancora un animale, e gli animali faticano ad adattarsi ai cambiamenti troppo rapidi. Siamo sempre più spaventati dal futuro. La nostra reazione è prevedibile. Il futuro che vorremmo ci appare sempre più improbabile, e il futuro che ci sembra più probabile ci riempie d’ansia. E così ci sentiamo impotenti: instabili nel presente, sradicati dal passato, resistenti al futuro. Siamo arrabbiati e diventiamo sensibili al richiamo pericoloso di ciarlatani, bigotti e xenofobi”.

L’articolo si concludeva con una nota positiva, un richiamo a raccontare nuove storie che sostituiscano quelle vecchie e quindi a creare strumenti per immaginare il futuro, un po’ come ha fatto il baseball. “Fin dalla notte dei tempi gli uomini si radunano intorno al fuoco per raccontare e ascoltare storie. Lo facciamo ancora, anche se il fuoco oggi è diventato uno schermo luminoso al cinema, nella televisione o nelle nostre mani. I motivi sono molti: la finzione narrativa ha tantissimo da offrirci. Ma in questo momento storico vale la pena di soffermarsi su un motivo in particolare: la narrazione è un antidoto alla nostalgia. Attraverso l’immaginazione creiamo il potenziale di ciò che sarà. Le religioni sono fatte di storie esattamente per questo. Le storie hanno il potere di liberarci dalla tirannia di ciò che è stato e di ciò che è”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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