18 dicembre 2023 12:07

Per arrivare al laboratorio di Operation identification bisogna entrare in un ranch di 1.800 ettari e poi percorrere un lungo viale costeggiato da querce e fiori selvatici. È pieno di farfalle, cavallette e uccelli. Ci sono anche mucche e capre che pascolano liberamente. Fuori del laboratorio capita spesso di vedere abiti stesi al sole ad asciugare. Uno scenario bucolico, insomma. Non quello che ci s’immagina pensando a un luogo in cui si analizzano ossa umane.

Operation identification, Opid, è un progetto avviato nel 2013 dalla Texas state university per recuperare, dare un’identità e restituire alle famiglie i resti delle persone che sono morte attraversando il confine tra Messico e Stati Uniti e sono state sepolte in modo inadeguato. È nato come reazione a un problema – i migranti che morivano nella traversata e di cui non si sapeva più nulla – che allora stava assumendo dimensioni enormi.

In realtà, i decessi aumentavano dal 1994, anno in cui Washington decise di usare il pugno di ferro nelle regioni su cui abitualmente si muovevano i lavoratori transfrontalieri, per impedire l’ingresso nel paese a chi non aveva i documenti in regola. Una politica di “prevenzione fatta con la deterrenza”. Invece di scoraggiare le partenze, l’approccio spinse le rotte dei migranti verso zone più lontane dai posti di blocco della polizia, ma anche molto più pericolose. Inizialmente, verso il deserto di Sonora, in Arizona. Poi in Texas.

Terre di confine

In Arizona da circa vent’anni si applica un protocollo preciso per gestire i cadaveri dei migranti, che prevede la collaborazione tra anatomopatologi (medici che indagano le cause della morte partendo dall’analisi di cellule e tessuti), antropologi forensi (che studiano le ossa), agenzie statali e associazioni che aiutano i parenti delle vittime. Questo ha permesso di dare un nome a due terzi dei corpi recuperati, vale a dire circa 2.500 persone.

A differenza dell’Arizona, le terre di confine del Texas sono costituite da piccole contee, e quasi nessuna ha una sezione di medicina legale. Inoltre, anche se richiedono indagini su tutti i cadaveri non identificati, le leggi statali sono ambigue e facilmente aggirabili. Di fatto, funzionari senza una formazione medica determinano la causa del decesso e firmano i certificati di morte, e gli uffici degli sceriffi affidano i corpi alle imprese di pompe funebri perché li seppelliscano nei cimiteri locali, spesso senza preoccuparsi di verificare dove li sotterrano.

Queste pratiche sono state pressoché ignorate fino al 2012, quando i mezzi d’informazione hanno cominciato a parlare di ondate di minori non accompagnati provenienti dall’America Centrale, e l’attenzione dell’opinione pubblica si è spostata sulla migrazione, e quindi anche su chi perdeva la vita nel tragitto. Le indagini su queste morti seguivano i protocolli previsti?

È stato allora che sono entrate in scena le antropologhe forensi della Texas state (la squadra dell’Opid è formata quasi esclusivamente da donne). Il primo caso di cui si sono occupate riguardava un giovane di vent’anni. La nonna del ragazzo era riuscita ad avere il rapporto sulla sua morte dalla contea di Brooks, vicino al confine, e sapeva anche com’era vestito al momento della scomparsa, ma nessuno era stato in grado di dirle dove si trovasse il corpo. Due ricercatrici sono riuscite a risalire al cimitero, ma non al lotto. Avrebbero dovuto scavare.

Nel maggio 2013, con un gruppo di studenti, sono partite dalle sepolture più recenti del cimitero: bare di legno organizzate in modo relativamente ordinato. Ma poi hanno scoperto sacchi tra le bare. L’anno successivo, intervenendo su una parte più vecchia del cimitero, si sono trovate davanti a scene più caotiche. E c’erano decisamente più resti di quanti si aspettassero: alcuni cadaveri erano chiusi in sacchi neri, altri negli involucri di cartone usati per la cremazione, altri ancora erano avvolti in semplici teli di plastica. A ogni scavo, gli abitanti del posto gli davano informazioni su sepolture non segnate.

Caroline Tracey racconta uno di questi interventi sul sito The Baffler. “Un gruppo di donne era in ginocchio in una buca profonda due metri e mezzo, a raccogliere la terra con dei secchi”, scrive. “Il sole non era ancora spuntato, quindi per lavorare avevano acceso dei fari. Muovevano le pale con precisione, tenendole dritte davanti a sé per togliere piccoli strati di terra alla volta invece di conficcarle nel terreno come fa la maggior parte delle persone quando scava”. Era l’ultimo giorno di lavoro. In due settimane la squadra aveva dissotterrato diciannove corpi.

Dopo l’esumazione, si segue sempre una procedura precisa. Si posizionano con cura i cadaveri sul prato e poi, uno alla volta, si trasferiscono dentro una tenda, per togliere i vestiti e gli oggetti personali, metterli in sacchetti di plastica richiudibili, annotare eventuali elementi identificativi e preparare tutto per il trasporto all’università.

Là le antropologhe lavano i vestiti e gli effetti personali, e in un secondo momento puliscono le ossa per esaminarle e costruire il “profilo biologico”, un processo abbastanza lungo e delicato. Il passaggio successivo è creare una scheda nel Namus, il registro nazionale delle persone scomparse, e spedire una delle piccole ossa del piede all’università del North Texas per aggiungerla al database del dna curato dall’Fbi. Svolte queste operazioni, si sistemano con cura i resti nelle stanze a clima controllato del laboratorio. E si aspetta un riscontro.

Valore politico e sociale

A oggi l’Opid ha fatto esumazioni in sette contee nel sud del Texas. Ha registrato 495 casi, 101 conclusi con un’identificazione. Il suo lavoro ha un profondo significato sociale, visto che si sforza di rendere giustizia alle famiglie degli scomparsi. Ha un valore politico, perché le prove forensi possono fornire le basi per formulare accuse contro i governi e altri soggetti che violano i diritti umani. E in qualche modo è anche orientato al futuro, perché ogni reperto aiuta a costruire una memoria di quello che è successo.

Il modello dichiarato delle antropologhe texane è l’Equipo argentino de antropología forense (Eaaf), il gruppo formato in Argentina negli anni ottanta per ritrovare i resti dei desaparecidos scomparsi durante la dittatura militare.

Sull’Eaaf vi consiglio di recuperare un articolo della giornalista e scrittrice argentina Leila Guerrero, uscito sulla rivista messicana Gatopardo e pubblicato da Internazionale nel 2011.

Guerrero parla con i primi componenti dell’Eaaf (per lo più giovani studenti), guidati dal leggendario antropologo Clyde Snow, un uomo che “beveva come una spugna, fumava sigari cubani, portava cappello e stivali texani”; descrive le reazioni perplesse della società (“Nessuno capiva cosa stavamo facendo”, le spiegano); si sofferma sul laboratorio usato per le analisi e sulle emozioni delle studenti e delle ricercatrici. “Quello che continua a impressionarmi sono i vestiti”, le confida una di loro. “Aprire una fossa e vedere i vestiti”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Doposcuola.

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