09 gennaio 2024 11:33

Nel 2017 il sito della University of California Press ha diffuso una nota in cui informava che una raccolta pubblicata molti anni prima includeva il contributo di una studiosa che non esisteva. La raccolta incriminata è Explaining emotions (1980), curata dalla filosofa americana Amélie Rorty, che nel contributo si era spacciata per una psichiatra israeliana, Leila Tov-Ruach.

Rorty avrebbe usato altri pseudonimi nella sua carriera. Per esempio, in un articolo del 1998 finse di essere un professore cinese esperto in storia della filosofia antica per parlare delle idee di Platone sull’educazione. In quell’occasione, in coda al testo, spiegava le ragioni della sua scelta. Quando aveva insegnato in Cina, era rimasta colpita dall’interesse che Platone suscitava tra gli studenti e i colleghi cinesi, e così aveva fatto un esperimento: aveva provato a vedere Platone con i loro occhi, per esercitare una specie di “empatia intellettuale” abitando una prospettiva nuova. Oggi qualcuno darebbe a quell’esercizio una connotazione negativa, parlando di appropriazione culturale. È una posizione condivisibile? E perché attribuire le proprie argomentazioni a un altro, addirittura a una figura inventata?

Assumere identità diverse per esprimere idee e ragionamenti è una prassi piuttosto comune nella storia della filosofia, commenta il ricercatore britannico Jonathan Egid sul sito Aeon: pensate ai dialoghi platonici, al prefisso “pseudo-” davanti a molti nomi dei teorici medievali, alla varietà di nomi con cui Søren Kierkegaard firmava i suoi scritti. Sono scelte che possono avere motivazioni di comodo (darsi più autorevolezza con un nome che rievoca un autore prestigioso) o appunto, come diceva Rorty, nascono dal desiderio di cambiare prospettiva sulle cose.

C’è un caso, però, in cui queste spiegazioni non bastano. Un’opera intitolata Hatata, che in geez (una lingua antica parlata in Africa orientale e oggi quasi estinta) significa indagine, inchiesta. L’Hatata è un testo unico nel suo genere, osserva Egid: è un trattato filosofico, un’autobiografia, una meditazione spirituale e una testimonianza delle guerre di religione che affliggevano l’Etiopia all’inizio del seicento.

L’opera ripropone le riflessioni di Zera Yacob (scritto anche Zara Yaqob), un uomo nato nel nord dell’Etiopia intorno all’inizio di quel secolo. Dopo aver dichiarato che nessuna religione è più giusta di un’altra, Yacob viene denunciato dai suoi nemici all’imperatore ed è costretto a scappare dalla sua città, sconvolta dal conflitto tra cristiani ortodossi copti e cattolici ferenj (stranieri). Si rifugia in una grotta in cui medita tutto il giorno, e lì sviluppa la sua filosofia: crede nella supremazia della ragione, sostiene che uomini e donne sono stati creati uguali, si schiera contro la schiavitù e contesta le dottrine consolidate. Quando finiscono le violenze, esce dal suo isolamento e torna in città, dove trova un discepolo che lo esorta a trascrivere i suoi pensieri prima di morire.

Il testo fu “scoperto” nel 1852 da un frate cappuccino di nome Giusto da Urbino, che lo portò a Parigi. Nei decenni successivi, fu editato e tradotto in russo e in latino, e cominciò a essere apprezzato dagli intellettuali europei. Poi negli anni venti un orientalista italiano, Carlo Conti Rossini, sostenne che lo scritto era un falso, prodotto dallo stesso da Urbino. Conti Rossini era uno studioso conosciuto, e alla fine la sua tesi fu presa per buona da quasi tutti gli accademici europei. Ma era anche affezionato al progetto colonialista italiano. Per sostenere l’invasione dell’Etiopia, nel 1935 pubblicò un saggio in cui affermava che il paese era incapace di progresso, citando il “falso” Hatata come prova.

Il dibattito sull’autenticità di questo testo e sull’esistenza del suo autore va avanti ormai da più di un secolo, spiega Egid. E, a differenza di altre dispute simili, sembra molto importante risolverlo. “Molti intellettuali etiopi sono comprensibilmente orgogliosi dell’opera, la presentano come un capolavoro della letteratura del seicento e il fondamento di un percorso alternativo, specificamente etiope, verso la modernità. E sono comprensibilmente furiosi all’idea che gli articoli di un intellettuale fascista possano togliere a uno dei più grandi pensatori del loro paese il riconoscimento che gli spetta”, si legge su Aeon. In Europa e negli Stati Uniti, gli accademici che vogliono diversificare i loro programmi di studio considerano Zera Yacob il simbolo di un illuminismo africano. Un Cartesio africano.

Egid propone però di andare oltre lo scontro sull’autenticità: è davvero così fondamentale capire chi ha scritto l’Hatata? “In teoria, quello che ci interessa di più in un testo filosofico sono le sue argomentazioni. E nell’Hatata gli argomenti sono potenti e sempre attuali, e sono esposti in una lingua originalissima. Si tratta di un lavoro stupefacente, al di là del fatto che il suo autore sia un etiope del seicento o un falsario italiano dell’ottocento”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Doposcuola.

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