22 gennaio 2024 15:58

Questo brano, pubblicato il 25 ottobre 2017 nel numero 1 di Internazionale Extra, è tratto da H.G. Wells, Russia nell’ombra © 2016, Nuova Editrice Berti. Traduzione di Cristina Colla.

Scopo principale del mio viaggio a Mosca era di poter incontrare Lenin. Ero molto curioso di vedere com’era e non ero molto ben disposto verso di lui. Ebbene, la persona che ho incontrato era completamente diversa da come me l’aspettavo.
Lenin non è uno scrittore. I suoi lavori non gli rendono giustizia. I brevi pamphlet e gli scritti pubblicati a suo nome da Mosca, pieni di idee sbagliate sul lavoro in occidente e ostinatamente impegnati a difendere l’insostenibile affermazione che quanto è avvenuto in Russia è la realizzazione della rivoluzione marxista, non hanno quasi nulla a che vedere con il Lenin reale, con la persona che ho incontrato e con la sua mentalità. Di tanto in tanto anche negli scritti s’intravedono sprazzi di una perspicacia ispirata, ma per il resto queste pubblicazioni non fanno che ripetere e ripetere e ripetere le idee e le frasi della dottrina marxista. Forse questo è necessario. Questa forse è l’unica lingua che il comunismo capisce. Un cambiamento improvviso o l’uso di una nuova lingua potrebbe forse essere troppo inquietante e demoralizzante! Il comunismo dogmatico è la spina dorsale della Russia oggi; purtroppo, è una spina dorsale priva di articolazioni flessibili, una spina dorsale che può essere piegata solo con estrema difficoltà e solo grazie a lusinghe e ossequiosità.

Sotto il sole luminoso di ottobre, tra le foglie gialle svolazzanti, Mosca ci è sembrata meno severa e più animata di San Pietroburgo. Più movimento di persone, più attività commerciali, e, in proporzione, un maggior numero di vetture. Ci sono mercati all’aperto. Le strade e le case non versano in quello stato di devastazione generale. Anche se indubbiamente si vedono i segni dei combattimenti disperati che avvenivano per le strade agli inizi del 1918. Una delle cupole della bizzarra cattedrale di San Basilio appena fuori dal Cremlino è stata distrutta da una granata e attende ancora di essere riparata. I tram che abbiamo incontrato non trasportavano passeggeri; erano usati per il trasporto di generi alimentari e di carburante. In questo San Pietroburgo sostiene di essere organizzata meglio di Mosca.

Le diecimila croci delle chiese di Mosca scintillano ancora nella luce tenue del pomeriggio. Su uno dei grandi pinnacoli del Cremlino le aquile imperiali aprono ancora le loro ali: il governo bolscevico era troppo occupato, o troppo indifferente, per abbatterle. Le chiese sono aperte. Il rito di baciare le icone è sempre fiorente, e i mendicanti sono ancora, come nel passato, lì a chiedere l’elemosina a chi varca la soglia. Era particolarmente affollato l’ingresso al celebre reliquiario miracoloso della Madonna iberica fuori dal cancello della chiesa del Redentore. Molte contadine, che non riuscivano a entrare nella piccola cappella, si inchinavano a baciare le pietre appena fuori dell’edificio.

Proprio di fronte, su un pannello in gesso, c’è una delle ormai celebri iscrizioni, sistemata lì da una delle prime amministrazioni rivoluzionarie di Mosca: “La religione è l’oppio dei popoli”. L’effetto che dovrebbe avere l’iscrizione è notevolmente ridotto dal fatto che in Russia la stragrande maggioranza della gente non sa leggere.

Le disposizioni in preparazione del mio incontro con Lenin sono state noiose e irritanti

A proposito di quell’iscrizione, ho avuto una discussione di poco conto, ma divertente, con Vanderlip, il finanziere americano alloggiato presso la nostra stessa pensione. Lui avrebbe voluto farla cancellare. Io invece volevo che fosse mantenuta perché interessante dal punto di vista storico, e perché penso che la tolleranza di culto debba estendersi anche agli atei. Ma Vanderlip era troppo saldamente ancorato alla sua opinione per accettare questo mio punto di vista.

La pensione dove abbiamo soggiornato a Mosca, dove erano ospiti anche Vanderlip (come ho già detto) e un artista inglese molto intraprendente che aveva ottenuto in qualche modo il permesso di venire a Mosca per realizzare busti di Lenin e Trotskij, è un imponente edificio riccamente arredato che si affaccia sulla Sofijskaja Naberežnaia, proprio di fronte al grande muro del Cremlino e a tutto il raggruppamento di cupole e di pinnacoli che caratterizza quella imperiale città interna. Ci sentivamo molto meno liberi e più isolati qui che a San Pietroburgo. Delle sentinelle all’ingresso ci proteggevano dai visitatori occasionali. A San Pietroburgo, invece, chiunque, anche non autorizzato, poteva, come in verità è anche successo, avvicinarsi e parlarmi.

Avevo capito che Vanderlip era ospite della pensione già da qualche settimana e che forse avrebbe prolungato ancora di qualche tempo il suo soggiorno. Non l’accompagnava nessun cameriere personale, né un segretario o un interprete. Non mi ha mai parlato della sua attività. Ha soltanto tenuto a precisare che si trattava di un’attività puramente economica e commerciale, e in nessun modo politica. Sapevo – almeno così mi era stato detto – che si era presentato a Lenin con le credenziali del senatore statunitense Harding; la cosa non mi aveva minimamente incuriosito né spinto a verificare se corrispondesse al vero, non ero interessato a saperne di più degli affari di Vanderlip. Non gli ho nemmeno chiesto come gli fosse possibile effettuare delle operazioni economico-finanziarie in uno stato comunista con qualcuno che non fosse il governo stesso, né come poteva trattare con un governo attenendosi a linee che non fossero anche politiche. Devo ammettere che erano misteri che sfuggivano alla mia comprensione. Comunque abbiamo condiviso i pasti, fumato e bevuto il caffé insieme, abbiamo conversato, tutto in un clima di massima discrezione. Ma, per il fatto stesso di non menzionare mai l’attività di Vanderlip, l’abbiamo ingigantita a tal punto da farla diventare una faccenda importantissima.

Le disposizioni in preparazione del mio incontro con Lenin sono state noiose e irritanti, ma alla fine mi sono trovato a far rotta verso il Cremlino in compagnia di Rothstein, già figura di spicco nei circoli della Londra comunista, e di un compagno americano, munito di una prestigiosa e ingombrante macchina fotografica, che era anche, a quanto avevo capito, un funzionario del ministero degli esteri russo.

Lenin passa in rassegna le truppe sulla piazza Rossa di Mosca, 25 maggio 2019. (N. Smirnow, Laski Diffusion/East News/Getty Images)

Mi ricordavo del Cremlino com’era nel 1914: un luogo aperto ai visitatori, aperto come lo è il castello di Windsor, visitato da un flusso continuo di pellegrini e di turisti, in gruppi e a coppie. Ora è un luogo chiuso e di difficile accesso. Prima di riuscire a superare il cancello esterno, bisogna ottenere una moltitudine di lasciapassare e permessi. E prima di arrivare alla presenza di Lenin, ci sono altri controlli e ispezioni, effettuati in cinque o sei stanze successive da diversi impiegati e sentinelle. Senza dubbio tutto questo è necessario per l’incolumità di Lenin, ma in realtà lo tiene a distanza, lì chiuso nel palazzo, allontanandolo dalla Russia, e (cosa forse più grave) se dovesse esserci un colpo di stato risulterebbe completamente tagliato fuori dal resto della nazione. Se tutto deve essere accuratamente controllato in entrata, lo stesso deve essere fatto in uscita, e in questo processo possono intervenire diversi cambiamenti.

Finalmente abbiamo incontrato Lenin: una figura minuta, seduta a una scrivania enorme in una stanza ben illuminata affacciata su ampie sale sontuose. Ricordo di aver pensato che aveva una scrivania molto disordinata. Mi sono accomodato su una sedia a un angolo della scrivania e quell’uomo piccolo – i cui piedi riuscivano appena a toccare il pavimento – s’è voltato a parlare verso di me, mentre con le braccia circondava la pila di carte sopra al tavolo. Parlava un ottimo inglese e ho pensato a quanto fosse curioso, considerata l’attuale situazione russa, che Rothstein assistesse alla conversazione e che, di tanto in tanto, offrisse chiarimenti e altre forme di aiuto. Nel frattempo, l’americano si era messo al lavoro con la sua macchina fotografica, e scattava discretamente ma con regolarità. Il discorso, tuttavia, era troppo interessante perché la sua presenza potesse risultare fastidiosa. E presto ci siamo dimenticati di tutti quegli scatti e di quei rapidi spostamenti del fotografo.

Ero arrivato all’appuntamento pronto a dare battaglia a un marxista dogmatico. Non ho trovato niente del genere. Mi era stato detto che Lenin trattava le persone dall’alto della sua cattedra; certamente non lo ha fatto in questa occasione. Si parla molto, quando lo si descrive, della sua risata, una risata giudicata piacevole in un primo momento, ma che poi diventa cinica. Ebbene, non ho avuto modo di notarlo. La sua fronte invece mi ha ricordato un’altra persona – non riuscivo a rammentare chi fosse fino all’altra sera quando ho visto Arthur Balfour che parlava seduto nella semioscurità. Esattamente la stessa configurazione a cupola del cranio, leggermente monodimensionale.

Lenin ha un viso piacevole ed espressivo, la carnagione olivastra, un sorriso vivace e l’abitudine (forse per via di qualche difetto visivo nella messa a fuoco) di strizzare un occhio ogni volta che, parlando, gli capita di fare una pausa. Non è assolutamente come appare nelle foto, perché è una di quelle persone i cui rapidi cambiamenti di espressione sono più importanti dei tratti del viso. Mentre parlava, gesticolava un poco con le mani appoggiate sopra le carte e i documenti ammucchiati davanti a lui, e parlava in fretta, appassionandosi a quanto diceva, senza atteggiarsi o cercare scappatoie o mostrare riserve, ma rimanendo rilassato e sicuro, come può esserlo un competente scienziato.

Due idee centrali

La nostra conversazione si è svolta intorno a due – come posso chiamarle? – idee centrali. Una espressa da me e diretta a lui: “Cosa pensate di fare della Russia? Che cosa si sta tentando di creare?”. L’altra espressa da lui e diretta a me: “Perché l’Inghilterra non fa una rivoluzione sociale? Perché non cerca di fare la rivoluzione sociale? Perché non distruggete il capitalismo e create uno stato comunista?”.

Queste idee centrali si intrecciavano, erano come un sottofondo continuo nello scambio di battute, e mettevano in evidenza luci e ombre della questione fondamentale: la rivoluzione e il futuro della Russia. Infatti, contro la sua serie di interrogativi (quelli rivolti a me) rimbalzavano le mie domande: “Ma cosa intendete fare della rivoluzione? Si rivelerà un successo?”. E da qui ancora si tornava agli altri interrogativi, i suoi: “Perché sia un successo, il mondo occidentale dovrebbe aderire alla rivoluzione, non credete? E perché questo ancora non succede?”.

Nei giorni precedenti il 1918 tutto il mondo marxista pensava che la rivoluzione sociale sarebbe stata la conclusione, la fine del processo rivoluzionario. Gli operai di tutto il mondo avrebbero dovuto unirsi, rovesciare il capitalismo, ed essere felici per sempre. Ma nel 1918 i comunisti, con loro grande sorpresa, si sono trovati a governare la Russia. Di fronte a loro, la grande sfida di realizzare, nel corso del nuovo millennio, un mondo nuovo. Per ritardare la realizzazione del sogno di un nuovo e migliore ordine sociale avevano alcune scusanti, come il protrarsi di una devastante condizione post-bellica, l’embargo economico dei paesi occidentali e così via. Tuttavia, è evidente che abbiano presto incominciato a rendersi conto di essere impreparati, a capire quanto vaghe e inadeguate fossero le indicazioni del pensiero marxista per essere trasferite in pratica.

Su almeno un centinaio di questioni – due le ho già segnalate io stesso – sono completamente disorientati. Ma il comunista perde la testa e si infuria se solo osate mettere in dubbio il fatto che tutto è stato svolto nel migliore e più intelligente dei modi sotto il nuovo regime. Si comporta esattamente come una casalinga che vuole indurvi ad affermare che tutto è in perfetto ordine nel bel mezzo di uno sfratto. È come una di quelle suffragette, ormai dimenticate, che promettevano il paradiso una volta liberate dalla tirannia di “leggi fatte dagli uomini”.

Lenin invece, la cui franchezza deve a volte lasciare i suoi discepoli molto sorpresi e senza fiato, ha recentemente negato la pretesa, finora sostenuta dai più, che la rivoluzione russa sia qualcosa di più dell’inaugurazione di un’epoca di continua sperimentazione.

“Coloro che sono impegnati nel compito arduo di superare il capitalismo”, ha recentemente scritto Lenin, “devono essere preparati a sperimentare un metodo dopo l’altro, fino a trovare quello che meglio risponde allo scopo”.

Lenin, convinto marxista ortodosso ostile agli utopisti, cedeva infine a un’utopia, l’utopia dell’elettrificazione

Abbiamo iniziato il nostro colloquio discutendo sul futuro delle grandi città sotto il comunismo. Volevo vedere fino a che punto Lenin prevedesse la fine delle città in Russia. La desolazione di San Pietroburgo mi aveva portato a riflettere su un aspetto che non avevo mai considerato prima, e cioè che l’esistenza di una città, la sua fisionomia, è fortemente caratterizzata dagli aspetti commerciali ed economici che offre. Aboliti questi, i nove decimi degli edifici che sono presenti in una città normale diventano automaticamente privi di scopo, inutili.

“Le città diventeranno molto più piccole”, mi ha confermato Lenin. “Saranno diverse. Sì, molto diverse”. E, ho aggiunto io, questo comporterà un enorme impegno. Significherà demolire le città esistenti per ricostruirle. Le chiese e i grandi edifici di San Pietroburgo sarebbero presto sembrati vestigia del passato, proprio come quelli di Velikij Novgorod o come i templi di Paestum. La maggior parte delle città sarebbe scomparsa. Era d’accordo con quanto affermavo, e annuiva allegramente. Penso che si sentisse rinfrancato nel trovare qualcuno che capiva questa conseguenza necessaria del collettivismo, idea che molti, anche del suo stesso popolo, non riescono ancora ad accettare. La Russia deve essere completamente ricostruita. Deve diventare una cosa nuova…

E l’industria? Anche quella dovrà essere riconvertita altrettanto… completamente? Dunque già sapevo cosa c’era in serbo per la Russia? La sua elettrificazione!

Lenin, convinto marxista ortodosso ostile agli utopisti, cedeva infine a un’utopia, l’utopia dell’elettrificazione. Si gettava a capofitto, con tutta la sua autorità, in questo progetto per la creazione di grandi centrali elettriche in Russia che assicurassero a intere regioni la luce, il trasporto e l’energia per le industrie. Ha affermato che due distretti pilota hanno già sperimentato l’elettrificazione. Si può immaginare un progetto più coraggioso per un così vasto territorio? Per una così ampia estensione di foreste? Per un numero così alto di contadini analfabeti, senza energia idroelettrica, privi di qualsiasi tipo di tecnologia, e per un paese con attività commerciali e industriali così allo stremo?

Simili progetti di elettrificazione sono in corso di realizzazione nei Paesi Bassi e sono stati presi in considerazione per l’Inghilterra. In zone di questo tipo, già densamente popolate, e in centri industrialmente sviluppati, si può immaginare che possa avere un risultato positivo e benefico. Ma la sua applicazione in Russia potrebbe essere un esercizio faticoso di immaginazione creativa. Non riesco a vedere come tutto ciò possa accadere in questa sfera di cristallo opaco che è la Russia, ma questo piccolo uomo al Cremlino sì, lui ci riesce. E vede le attuali ferrovie fatiscenti sostituite da nuovi treni elettrici, vede nuove strade che si diramano in tutto il paese, vede una nuova e più felice forma di industria rinascere, quella comunista. Lenin mi ha quasi convinto a seguirlo in questa sua visione, mentre conversavo con lui.

“E proseguirete con questo progetto anche se i contadini sono ancora così radicati alla terra?”.
“Non saranno solo le città a essere ricostruite! Lo stesso processo di riorganizzazione interesserà ogni centro agricolo. Anche ora”, ha continuato Lenin dopo una breve pausa, “la produzione agricola della Russia non è solo frutto del lavoro dei contadini. In alcune zone esistono forme di agricoltura massiva. Il governo, dove le condizioni sono favorevoli, sta già dirigendo le grandi proprietà agricole utilizzando gli operai invece dei contadini. E questo metodo può estendersi e diffondersi. Gradualmente. I contadini delle aree limitrofe a quelle in cui il processo è in corso, egoisti e analfabeti come sono, non si renderanno conto di quanto sta succedendo finché non sarà arrivato il loro turno…”.

Può essere difficile sconfiggere il contadino russo en masse, ma non è altrettanto difficile se lo si prende individualmente. Mentre parlava dei contadini, Lenin ha sporto il capo in avanti, avvicinandosi a me, e i suoi modi si sono fatti più confidenziali. Come se, anche lì, i contadini potessero sentirlo.

Non è solo l’organizzazione materiale della società che dovete creare e costruire, ho osservato. È la mentalità di tutto un popolo. Per abitudine e tradizione, il popolo russo ama mercanteggiare, ed è essenzialmente individualista; se si vuole realizzare questo nuovo mondo, la sua anima e la sua naturale inclinazione dovranno essere rimodellate.

A questo punto Lenin mi ha chiesto che cosa avessi visto del lavoro educativo nelle scuole. Ho espresso la mia stima e un’opinione molto favorevole per alcune delle cose che avevo visto. Lui annuiva sorridendo con piacere, mostrando una fiducia illimitata nel lavoro che sta svolgendo.

“Ma questo è solo un abbozzo del progetto. Sono solo gli inizi”, gli ho detto.
“Tornate tra una decina di anni e vedrete quello che avremo fatto in Russia”, mi ha risposto lui.

Ho capito, allora, come con lui, dopo tutto, il comunismo potesse, nonostante Marx, essere enormemente creativo. Dopo aver incontrato, tra i comunisti, dei noiosi fanatici della lotta di classe, uomini che si esprimevano con frasi fatte e sterili come pietre, dopo aver ascoltato le tante esperienze enumerate dalla presunzione dello sciocco e devoto marxista comune, questo sorprendente minuscolo uomo era un’ondata di freschezza, con la sua sincera ammissione che la realizzazione del progetto comunista fosse cosa assai complessa, e con quella sua semplice e sincera determinazione nel cercare di portarlo a compimento. Lui, almeno, ha una visione di un mondo che cambia direzione, per il quale esiste un progetto, e che sarà costruito di nuovo.

Desiderava sapere di più delle mie impressioni della Russia. Gli ho detto che pensavo che in molte parti e in diversi settori, in particolare nella città di San Pietroburgo, il comunismo stesse premendo in modo troppo duro, affrettando i tempi, distruggendo prima di esser pronto a ricostruire.

Avevano messo in ginocchio il commercio prima d’aver predisposto i criteri del razionamento; l’organizzazione cooperativa era stata abbattuta invece di essere utilizzata, e così in tanti altri settori.

Questa mia osservazione ha fatto emergere la differenza fondamentale delle nostre reciproche posizioni: la differenza tra il punto di vista del collettivista evolutivo e quello del marxista; cioè se la rivoluzione sociale sia, in questo grave frangente, una conseguenza naturalmente inevitabile oppure se si tratti di una premessa necessaria per abbattere un sistema economico e permettere al nuovo d’iniziare.

Io credo che attraverso una vasta e prolungata campagna educativa, il sistema capitalista esistente possa essere incivilito, trasformato in un sistema collettivista mondiale; Lenin invece è legato da anni ai dogmi marxisti: l’inevitabile lotta di classe, la caduta del capitalista come preludio alla ricostruzione, la dittatura del proletariato, e così via.

Si è trovato dunque a sostenere che il capitalismo moderno è inguaribilmente predatore, rovinoso per gli sprechi che produce e poco ricettivo, e finché non sarà distrutto continuerà a sfruttare la stupidità e l’apatia, tratti caratteristici degli uomini. Continuerà a contrastare e a opporsi a ogni forma di amministrazione delle risorse naturali per il bene comune, ed essendo per sua stessa natura votato al litigio e alla sopraffazione, fomenterà inevitabilmente la guerra.

Devo confessare che per me non è stata una discussione facile da sostenere. Improvvisamente, Lenin ha tirato fuori il nuovo libro di Leo Chiozza Money, The triumph of nationalization, che aveva evidentemente letto con molta attenzione.
“Ma vedete anche voi, in modo diretto, che come cominciate a costruire una buona organizzazione di lavoro collettivista di qualsiasi interesse pubblico, i capitalisti la distruggono. Hanno abbattuto i vostri cantieri navali nazionali; non vi permetteranno di guadagnare dalla lavorazione del vostro carbone”. Lo diceva picchiettando con dei colpetti la copertina del libro: “È tutto scritto qui”.

E ribattendo alla mia tesi secondo cui le guerre nascevano dall’imperialismo nazionalista e non dal capitalismo, ha subito aggiunto: “E che cosa ne pensate di questo nuovo imperialismo repubblicano che ci viene dall’America?”.

A quel punto, anche Rothstein è intervenuto, parlando in russo, con un’obiezione di cui Lenin non ha tenuto minimamente conto. Anzi, incurante dell’intervento di Rothstein che lo esortava alla discrezione diplomatica, Lenin ha continuato a spiegarmi dei progetti con cui un certo americano stava cercando di impressionare Mosca. Ci sarebbe stato un sostegno economico alla Russia e il riconoscimento del governo bolscevico. E anche un’alleanza difensiva contro l’aggressione giapponese in Siberia. Ci sarebbe stata una stazione navale americana sulle coste dell’Asia, e una concessione per lo sfruttamento di cinquanta o sessant’anni delle risorse naturali della Kamčatka ed eventualmente anche di altre grandi regioni russe dell’Asia.

Bene, pensavo forse che tutto questo fosse per costruire la pace? Non era forse l’inizio di un nuova sopraffazione mondiale? Come avrebbero reagito gli imperialisti britannici? Il capitalismo, tornava ad affermare, è basato sulla competizione estrema e sulla sopraffazione. È l’antitesi a ogni tipo di azione volta al bene comune. E mai si trasformerà sviluppando l’unità sociale o l’unità mondiale.

Ma – gli ho obiettato – delle potenze industriali dovevano pure intervenire per aiutare la Russia! La Russia non si può certo ricostruire senza un aiuto esterno…
La discussione, così ampia e che aveva toccato tanti aspetti, è terminata senza alcuna conclusione definitiva. Ci siamo lasciati salutandoci calorosamente. Io e il mio compagno siamo ripassati attraverso i ferrei controlli per uscire dal Cremlino, gli stessi di quando eravamo entrati. “È sempre molto lucido”, ha commentato Rothstein. “Anche se si è lasciato sfuggire un’indiscrezione…”.

Mentre camminavamo per ritornare alla nostra pensione, sotto le fronde scarlatte degli alberi che crescono nell’antico fossato del Cremlino, non avevo voglia di parlare. Volevo ripensare al mio incontro con Lenin mentre tutto era ancora ben impresso nella mia mente. Non volevo essere influenzato dalle opinioni del mio compagno. Ma Rothstein continuava a parlare. Stava cercando di fare pressioni perché non menzionassi a Vanderlip quel quadretto che Lenin aveva appena delineato sulle prospettive strategiche russo-americane. E non la smetteva neanche dopo che lo avevo assicurato che rispettavo troppo il velo di discrezione steso da Vanderlip per trapassarlo con qualche parola o frase imprudente.

E così, eravamo di nuovo al numero 17 di Sofiskaia Naberezhnaia. Abbiamo pranzato con Vanderlip e il giovane scultore di Londra. Un cameriere anziano rimaneva a nostra disposizione, tristemente consapevole della povertà dell’intrattenimento che offriva la pensione e memore dei fasti passati, giorni in cui Caruso aveva soggiornato a Mosca ed era stato loro ospite alloggiando nella stanza al piano di sopra, e aveva cantato per tutti.

Questo brano, pubblicato il 25 ottobre 2017 nel numero 1 di Internazionale Extra, è tratto da H.G. Wells, Russia nell’ombra © 2016, Nuova Editrice Berti. Traduzione di Cristina Colla.

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