15 marzo 2024 11:01

Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2006 nel numero 674 di Internazionale.

Presi la morte di Italo Calvino – oggi mentre ne scrivo fanno vent’anni e cinque giorni – come un fatto personale, visto che senza saperlo aveva mancato un appuntamento con me. Calvino, uno dei più grandi scrittori europei del novecento e tra i pochissimi italiani (con Alberto Moravia, Luigi Pirandello e Umberto Eco) ad avere penetrato la cultura letteraria americana, vergognosamente immune alle traduzioni, si preparava infatti a visitare gli Stati Uniti per tenere un ciclo di conferenze all’università di Harvard (le Charles Norton Lectures) quando a 61 anni, seduto nel giardino dietro casa sua, ebbe un’emorragia cerebrale e due settimane dopo morì. Oltre all’invito di Harvard, aveva accettato anche di compiere un breve tour delle librerie statunitensi che lo avrebbe portato fino alla Cody’s Books di Berkeley, dove io mi sarei fatto trovare seduto in prima fila, con il fiato sospeso. Invece venni a sapere della morte di Calvino leggendo un biglietto sulla porta di Cody’s che annunciava la cancellazione dell’incontro, accanto a un ritaglio del necrologio che stranamente mi era sfuggito.

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Calvino, allora come oggi, non era solo uno dei miei scrittori preferiti. Gore Vidal, sulla New York Review of Books, scrisse che “l’Europa accoglieva la morte di Calvino come una catastrofe per il mondo della cultura”. Io la presi invece con maggiore egoismo, sentendomi privato della possibilità di presentarmi all’unico scrittore vivente che mi sembrava capace di superare senza sforzo le deprimenti contraddizioni in cui si dibattevano i miei (incipienti) impulsi letterari. Mi sembrava infatti che Calvino fosse riuscito dove non era riuscito nessun autore di lingua inglese: i suoi romanzi, le sue favole e i suoi racconti erano classicamente moderni e allegramente postmoderni, sperimentali e tradizionali insieme, umani e concettuali, intimistici e universali.

Calvino, con i suoi continui riferimenti ai fumetti, alle fiabe popolari e al cinema, e con le sue umoristiche dimostrazioni delle teorie scientifiche e filosofiche contemporanee, era riuscito a fondere insieme temi di cultura alta e di cultura bassa, in uno stile internazionalmente comprensibile eppure assolutamente personale. A suo agio con i membri dell’Oulipo a Parigi (Georges Perec, Harry Mathews, Raymond Queneau e gli altri che componevano testi sperimentando con le leggi della creazione letteraria) o mentre dichiarava il suo amore e i suoi debiti nei confronti di Hemingway, Stevenson e i fratelli Grimm, Calvino non rinunciava mai all’elegante esplorazione di tutto ciò che, in natura, in arte o nella vita intellettuale e non, poteva incuriosirlo. La sua era una prosa da ambasciatore, la sua opera una sorta di ponte vivente tra Plinio il Vecchio, Franz Kafka e il cinema neorealista italiano. Ed era anche – lo intuivo allora, e più tardi l’ho sentito ripetere spesso – una persona gentile e generosa, sia da studente sia poi come collega o amico. Se fosse vissuto qualche altra settimana, perciò, avrebbe probabilmente tollerato anche il mio sforzo di rubargli un po’ del tempo che gli restava per vantarmi di quanto avesse influenzato i romanzi che ancora dovevo scrivere.

Calvino non ha mai scritto un libro scadente. Eppure anche un autore così conosciuto ha bisogno di un compendio da tramandare ai posteri

Vent’anni dopo, invece, sono un po’ preoccupato per lo stato degli scaffali riservati alla sua opera nelle librerie degli Stati Uniti. Non che i suoi libri siano fuori catalogo: al contrario, i suoi (due) editori gli hanno reso omaggio presentando quasi tutti i suoi titoli (piuttosto numerosi) in eleganti edizioni tascabili, per la maggior parte in una collana piacevolmente uniforme della Harcourt Brace. E se li chiamo titoli una ragione c’è: il famoso saggio che Gore Vidal scrisse nel 1974 per presentarli al grande pubblico statunitense s’intitolava I romanzi di Calvino, ma in realtà la sua narrativa si colloca in una zona particolare della scrittura romanzesca.

Tra le sue opere mature, solo Il barone rampante (1957) può rivendicare con sicurezza la forma e le proporzioni tipiche del genere, mentre la maggior parte dei suoi libri sono sequenze o successioni di storie, favole, frammenti e fughe tenute insieme dalla presenza di personaggi ricorrenti, da un certo numero di elementi simbolici o da un’elaborata cornice. Ogni altro tipo di classificazione risulta inadeguato. Marcovaldo (1963) e Palomar (1983) ruotano intorno a un personaggio centrale (alter ego dell’autore/lettore) impegnato nell’osservazione capillare della sua città, della campagna circostante, dell’universo; Il castello dei destini incrociati (1973) e Le città invisibili (1972) sono testi compositi che alternano favola e meditazione; Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) è al tempo stesso un antiromanzo e un metaromanzo composto interamente di incipit narrativi; e le raccolte di racconti Le cosmicomiche (1965) e Ti con zero (1967) hanno anch’esse quasi sempre per protagonista un curioso osservatore della realtà (o per meglio dire dell’evoluzione universale) che continua a chiamarsi Qfwfq, ma che di volta in volta assume la forma di una particella di pulviscolo cosmico o di un dinosauro, di una conchiglia marina o di un uomo delle caverne (qualcuno diffonda questi libri in Kansas, per favore: i nemici di Darwin sarebbero sommersi da illuminazioni).

A complicare ulteriormente le cose, però, alcune delle opere migliori di Calvino sfuggono anche a queste categorie: penso ai racconti Gli amori difficili (1970) o a quelli raccolti in volume insieme alla Giornata d’uno scrutatore (nel 1971), ma anche a due romanzi come Il cavaliere inesistente (1959) e Il visconte dimezzato (1952). Se aggiungete poi alcune disordinate raccolte postume, come Sotto il sole giaguaro (1986) o Prima che tu dica pronto (1995), e tre volumi che raccolgono i saggi e gli interventi pubblici dell’autore, ecco che il problema emerge con chiarezza: il paradiso del collezionista può diventare il purgatorio del lettore casuale. Parlo sia da collezionista di vecchia data sia da ex commesso di libreria, abituato a osservare e aiutare i clienti a scegliere un libro: nobilitate lo scaffale di un autore con troppe edizioni allettanti e la scelta del lettore diventerà una questione di fortuna.

Non è un problema che riguarda solo Calvino. La Steerforth Press ha fatto in modo che per un lettore curioso di Dawn Powell ci siano le stesse possibilità di uscire dalla libreria stringendo una delle sue prime, cupe opere ambientate in Ohio (o il fallimentare Happy island) o l’incantevole Gira magica ruota o The locusts have no king. Quante probabilità ci sono che quel lettore ritorni? Vintage Books, pur animata dalle migliori intenzioni, ha creato più o meno le stesse difficoltà al processo di canonizzazione di Philip K. Dick, visto che almeno una ventina di libri anonimi o addirittura scadenti si fanno largo tra i capolavori con le loro copertine accattivanti.

Italo Calvino non ha mai scritto un libro scadente. Eppure anche un autore così conosciuto, che non ha da offrire ai lettori un unico capolavoro esemplare (alcuni potrebbero proporre Le città invisibili, ma questo libro indicibilmente incantevole offre una gamma troppo ristretta delle sue capacità, della sua esuberanza onnivora), ha bisogno di un ingresso principale per i principianti e anche di un compendio da tramandare ai posteri.

Può sembrare sacrilego proporre un grosso volume intitolato Il meglio di Calvino? Chiamiamolo Storie, allora, oppure Sessanta racconti. Vi sembra una violenza estrapolare dei brani da libri che per i lettori sono sacri così come sono, inviolati? Non dico che i volumi originari debbano andare fuori commercio per fare spazio a un’antologia. Forse sembra impossibile estrarre un tassello da una struttura così organicamente perfetta come Le città invisibili: ma in quel caso basterà inserire tutto il libro nell’antologia, proprio come in The Thurber carnival (il volume che raccoglie l’opera di James Thurber) ha trovato spazio tutto My life and hard times. Nel 1980, quando l’editore Knopf rese onore a Ray Bradbury con The stories of Ray Bradbury, alcuni racconti furono separati dagli altri con cui in qualche modo dialogavano all’interno delle raccolte Cronache marziane o L’uomo illustrato (la dedica nell’edizione americana del libro è eloquente: “Per Nancy Nicholas e Robert Gottlieb, che confrontando i loro gusti hanno messo insieme questo libro”).

Allo stesso modo, per pubblicare un volume dei migliori racconti di John Updike, bisognerà selezionare solo alcuni brani della serie che ha per protagonista Richard Maple o di quella in cui torna la figura di Henry Bech. I greatest hits degli scrittori hanno un posto nella storia della letteratura. Lo sapevate che prima dell’arrivo di Leon Edel e di altri curatori, La figura nel tappeto di Henry James faceva parte di una raccolta intitolata Embarassments? Solo i jamesiani incalliti riconoscerebbero gli altri titoli dell’indice. Per loro (d’accordo, lo confesso, anche per noi) il volume The complete tales of Henry James si trova sempre, disponibile nelle biblioteche e nei negozi di libri usati, oppure in ristampa.

Le discussioni sul valore di un’opera sono entusiasmanti e rendono onore agli autori famosi almeno quanto i lunghi scaffali di edizioni uniformi. Italo Calvino, nella sua carriera troppo breve ma intensa, ha disseminato veri e propri tesori letterari: merita senz’altro dei lettori che possano assaporarli nelle loro edizioni originali, ma anche un’antologia con le sue opere migliori.

(Traduzione di Maria Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è stato pubblicato il 29 dicembre 2006 nel numero 674 di Internazionale.

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