15 gennaio 2016 12:35

Nella geopolitica della produzione petrolifera le previsioni sono sempre un rischio. Per quanto possa essere importante, il prezzo del greggio non è mai l’unico fattore che determina gli eventi. Detto questo, si può comunque presumere che se il prezzo del barile continuerà a precipitare le ripercussioni saranno enormi al livello globale. Basta pensare a come i massimi e i minimi delle quotazioni hanno influito sulle relazioni internazionali e gli sviluppi politici degli ultimi quarant’anni.

La crisi petrolifera degli anni settanta ha rimodellato il panorama mondiale e ha dato una nuova rilevanza al Medio Oriente. Quando i prezzi sono crollati alla metà degli anni ottanta, la fine dell’Unione Sovietica è stata accelerata dal collasso delle sue esportazioni. L’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990 nasceva in parte dalla volontà di conquistare nuovi territori in un momento di ristrettezze finanziarie. In Algeria, altro paese profondamente dipendente dagli introiti del petrolio, lo stesso calo del prezzo (fino a meno di dieci dollari al barile) ha innescato una vittoria elettorale degli islamisti, un colpo di stato e poi la guerra civile.

Da tutto questo si capisce come sia difficile trarre conclusioni nette su chi ha da guadagnare e chi ha da perdere dalla riduzione dei prezzi del greggio. Anche se le democrazie liberali dell’occidente hanno beneficiato del crollo del blocco sovietico, il calo dei prezzi non ha certo portato pace e stabilità nel mondo arabo e musulmano.

L’Arabia Saudita ha orchestrato la riduzione del costo del barile nel tentativo di indebolire l’Iran

In generale possiamo dire che il crollo del prezzo del petrolio ha ridotto la speranza che le potenze emergenti possano continuare la loro crescita modernizzandosi e contribuendo a garantire la stabilità internazionale.

Troppi governi, infatti, hanno basato le loro ambizioni sui prezzi alti di prodotti che oggi sono in caduta libera. Come ha sottolineato in settimana la direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, questi paesi ora devono affrontare una “nuova realtà” di crescita lenta e di preoccupante incertezza.

Prendiamo l’esempio del Brasile. Un tempo descritto come il campione del sud del mondo, oggi barcolla perché l’economia è in crisi e la situazione è resa ancora più instabile dallo scandalo di corruzione che ha colpito il gigante petrolifero Petrobras. Il Brasile è una democrazia, dunque l’instabilità è una notizia sgradita. Il calo del prezzo del petrolio non aiuterà nemmeno il nuovo governo della Nigeria, primo produttore di petrolio in Africa, in un momento in cui le reti jihadiste si stanno diffondendo nella regione e oltre.

La caduta del prezzo del petrolio non colpisce solo i paesi amici dell’occidente, ma anche le potenze che considera avversarie. In Russia, Vladimir Putin sembra determinato a restituire al suo paese il ruolo di grande potenza ricorrendo all’avventurismo militare in Europa e in Medio Oriente, ma ora deve gestire una complicata equazione finanziaria. Il Cremlino ha appena annunciato un taglio del 10 per cento della spesa pubblica, segno evidente che il paese sta subendo le conseguenze delle sanzioni internazionali e del calo dei prezzi in un’economia che ha bisogno di un petrolio ad almeno cento dollari al barile. Altri regimi altrettanto colpiti dal calo del prezzo del greggio cercano di compensare con i fondi d’investimento statali, ma si tratta di interventi limitati.

La maledizione delle risorse

Il Venezuela è un altro esempio delle insidie di quella che è definita la maledizione delle risorse, ovvero l’eccessiva dipendenza dal petrolio a scapito della modernizzazione e della diversificazione dell’economia. La crisi del modello “bolivariano” avrà conseguenze al livello regionale, a partire da Cuba, paese a lungo sostenuto dai sussidi venezuelani e attualmente impegnato in una nuova fase dei suoi rapporti con gli Stati Uniti.

L’area dove le conseguenze geopolitiche del calo del prezzo del petrolio sono più imprevedibili è naturalmente il Medio Oriente. L’Arabia Saudita ha orchestrato la riduzione del costo del barile nel tentativo di indebolire l’Iran, suo rivale regionale, nel momento in cui torna sul mercato delle esportazioni petrolifere. Tuttavia i prezzi bassi rappresentano anche un problema interno per le dinastie del Golfo.

A lungo termine questo potrebbe ridurre la conflittualità della regione, ma a breve termine potrebbe essere un’ulteriore causa di tensioni per regimi traballanti, che vogliono distogliere l’attenzione dai problemi interni. La Russia potrebbe fare la stessa scelta, mentre la reazione di Pechino è ugualmente imprevedibile.

Quel che è certo è che entrate petrolifere troppo basse possono essere altrettanto dannose di entrate troppo alte.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.

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