11 aprile 2016 20:26

Il pubblico presente nell’aula magna della City university di New York era composto per il 99 per cento da ebrei, venuti per ascoltare sette scrittori discendenti di sopravvissuti all’olocausto. Nella sala non c’era neanche un afroamericano, e questo mi ha fatto pensare che forse la comunità ebraica non era riuscita a presentare il genocidio come una calamità universale.

Ho assistito alla conferenza per motivi antropologici, per osservare questa comunità benestante che si abbandona al vittimismo e sfrutta la memoria per fini politici. “Non c’è mai stato niente di peggio dell’olocausto”, ha detto un relatore arrivato dalla Svezia. L’ho trovata una dichiarazione un po’ ottusa, anche perché pronunciata in un paese dove lo spettro della schiavitù è ancora presente.

Il giorno dopo a un evento alla Columbia university il pubblico era composto in maggioranza da neri. I relatori erano il professor Cornell West e il reverendo Jesse Jackson. West ha elogiato il “fratello Bernie” (Sanders) per la sua sfida al consumismo. Smentendo le previsioni, Jackson non ha appoggiato apertamente Hillary Clinton, ma si è limitato a chiedere ai neri di andare a votare. Quando gli hanno chiesto di commentare l’invito di Obama ai neri a migliorare la loro condotta al lavoro e in famiglia, West ha risposto con rabbia: “Il presidente dovrebbe occuparsi della condotta di Wall street”. E Jackson: “Non dobbiamo sottovalutare i devastanti effetti della schiavitù sul nostro popolo”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 8 aprile 2016 a pagina 33 di Internazionale, con il titolo “Il vittimismo e la rabbia”. Compra questo numero | Abbonati

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it