20 gennaio 2016 09:24

Non più di “due mesi” a partire da oggi. È questa la scadenza che il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha dato all’Unione per regolare il flusso di rifugiati. Se l’Ue fallirà, ha dichiarato il 19 gennaio Tusk, sarà la fine della libera circolazione dei beni e delle persone nello spazio Schengen, l’area composta dai 28 stati membri e da quattro stati associati che rappresenta uno dei più grandi risultati del progetto europeo.

Se l’Europa dirà addio alla libera circolazione bisognerà ristabilire un numero enorme di posti di controllo frontalieri e procedere a un’assunzione massiccia di doganieri e poliziotti. I collegamenti aerei diventerebbero più difficili, le file di camion provocherebbero ingorghi ovunque e i lavoratori transfrontalieri rischierebbero di perdere il posto perché il passaggio da un paese all’altro diventerebbe troppo complesso.

Per l’unità europea sarebbe un colpo durissimo, eppure per paura degli attentati o nel tentativo di tenere lontani i rifugiati, sette paesi dello spazio Schengen hanno già ristabilito i controlli alle frontiere. Teoricamente si tratta di una misura provvisoria, ma nella sostanza i governi in questione esitano davanti alla possibilità di eliminarli perché la richiesta di sicurezza da parte dell’opinione pubblica è sempre più pressante.

Tempi stretti

Due mesi forse è un’esagerazione, ma nella sostanza Donald Tusk ha ragione. Ormai è in atto una corsa tra la fine dello spazio Schengen e il rafforzamento delle frontiere esterne dell’Unione con il mantenimento dei rifugiati siriani in Turchia, paese da cui partono per la Grecia prima di andare a sbattere contro le frontiere settentrionali.

Non sono le frontiere nazionali che fermeranno gli attentati, ma le indagini e la cooperazione

I tempi sono stretti, ma intanto il dispiegamento di agenti di frontiera europei in Grecia procede a rilento e la Turchia, malgrado le promesse di aiuti europei, sembra non avere fretta di controllare le sue coste.

La partita non è ancora persa, ma il rischio è concreto. Il ritorno delle frontiere europee, tra l’altro, non risolverebbe niente, perché sarebbe molto più complesso e costoso rispetto alla chiusura ermetica dei confini esterni dell’Unione e non impedirebbe ai rifugiati di sbarcare sulle coste europee. L’unica differenza è che resterebbero bloccati in Grecia e Italia, che dovrebbero occuparsene da sole senza la solidarietà degli altri stati membri. La verità è che non sono le frontiere nazionali che fermeranno gli attentati, ma le indagini e la cooperazione.

Le frontiere nazionali sono un elemento tanto rassicurante quanto inutile, e tra l’altro il loro ripristino frenerebbe gli scambi europei, penalizzerebbe ulteriormente la crescita economica dei 28 e assesterebbe un colpo durissimo a una dinamica unitaria già zoppicante.

L’Unione è in panne e poco amata dai suoi cittadini. Nei prossimi mesi vivrà al ritmo dei sondaggi sul referendum britannico. Alla fine, malgrado tutto, l’Europa unita resisterà, ma l’ultima cosa di cui ha bisogno è la fine dello spazio Schengen, perché una volta presa questa strada tornare indietro sarebbe molto difficile.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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