09 gennaio 2016 11:17

Ci sono dei dati dell’Istat che finiscono regolarmente in posizione marginale, e sono quelli sulle abitudini culturali degli italiani. L’ultima rilevazione dell’istituto statistico dice che il 18,5 per cento degli intervistati nell’ultimo anno non ha letto un libro, non ha fatto sport, non ha visitato un museo né una mostra né un sito archeologico, non è andato a teatro, al cinema, a un concerto. Questo dato diventa il 28,2 per cento per il sud.

Vorrei confrontare questa percentuale con quella citata da un libro di Giovanni Solimine uscito l’anno scorso, Senza sapere: l’89,7 per cento degli italiani guarda la televisione tutti i giorni, il 10 per cento non usa altri mezzi di comunicazione (fonte Censis). In nessun paese europeo c’è un numero così alto di teledipendenti.

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Quella che evidentemente è la più grande disuguaglianza italiana non solo non è affrontata ma nemmeno riconosciuta, da questo come dai precedenti governi. C’è una parte della popolazione che legge e studia, ce n’è un’altra che guarda la televisione e basta. Questa seconda parte vive soprattutto al sud. Le inchieste di Save the children degli ultimi anni confermano ancora più crudelmente questo quadro: nell’ultimo anno il 48,4 per cento dei minorenni meridionali non ha letto neanche un libro, il 69,4 per cento non ha visitato un sito archeologico e il 55,2 per cento un museo, il 45,5 per cento non ha svolto alcuna attività sportiva. Spesso nemmeno la scuola al sud svolge un ruolo di contrasto alla depressione culturale delle famiglie.

Qual è il rapporto con gli altri paesi europei? Oggi solo il 41 per cento degli italiani legge almeno un libro all’anno, otto punti percentuali in meno rispetto a cinque anni fa. In Germania e nel Regno Unito la percentuale è quasi doppia, in Francia leggermente inferiore. Lo stesso rapporto 1 a 2 riguarda più o meno la spesa per la cultura e la quota del prodotto interno lordo.

Investire nell’educazione non è la stessa cosa che promuovere i consumi culturali

Ciò che è chiaro è che quest’emergenza non è stata intaccata dalle iniziative sporadiche proposte velleitariamente dal governo. E di questi fallimenti andrebbe tenuto conto. C’è stato un incremento sensibile o misurabile nella pratica della lettura grazie alle iniziative del Centro per il libro e la lettura (Cepell) dal 2008, data della sua istituzione? No. Bisognerebbe ripensare radicalmente quest’organismo, o altrimenti abolirlo? Sì. E lo stesso vale per molte altre iniziative, come per esempio quelle sull’educazione digitale nelle scuole. Ben finanziate, non monitorate, danno risultati spesso evanescenti.

Occorre cominciare a censire le abitudini e le pratiche più che i consumi culturali, diversamente, per esempio, da quello che fa l’istituto di statistica Nielsen per il Cepell. E in generale occorre capire che investire nell’educazione non è la stessa cosa che promuovere i consumi culturali.

I vari bonus di 500 euro per i consumi culturali destinati agli insegnanti e ai diciottenni che il governo Renzi ha stanziato e promesso cambieranno qualcosa nei dati terrificanti che abbiamo citato? È difficile saperlo, ma possiamo dubitarne, se si considera che con i 500 euro si possono acquistare computer, portatili o tablet; ed è quello che farà la maggioranza dei docenti e dei ragazzi.

Molto diverso sarebbe pensare progetti strutturali: sull’educazione alla lettura – per esempio – oltre a Solimine, vanno citati i lavori di Giusi Marchetta, Antonella Agnoli, Luisa Capelli, Sergio Dogliani. Potremmo cominciare a studiare le loro ricerche e a prendere spunto dalle loro esperienze se vogliamo sperare di ricevere una bella sorpresa all’opposto l’anno prossimo quando leggeremo i dati Istat e Nielsen sulla lettura e i consumi culturali.

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