24 gennaio 2016 10:39

L’ultimo film di Alejandro Iñárritu, The revenant, è un tipico prodotto hollywoodiano degli ultimi anni: regia virtuosistica e tecnologia di postproduzione avanzatissima per raccontare in modo iperrealistico la storia estrema di un essere umano che supera ogni limite delle sue possibilità di esperienza. In questo caso si tratta di Glass, un cacciatore di pelli negli Stati Uniti dell’ottocento, che riesce a sopravvivere all’assalto di un orso, alla furia di bande di indiani, alla fame e al gelo di lande desolate, alla caduta in uno strapiombo e ad altre varie catastrofi, senza contare l’odio assassino di un altro cacciatore che gli ha già ucciso il figlio.

Leonardo DiCaprio che lo interpreta cerca di restituire mimeticamente per due ore e mezza la condizione emotiva di un uomo che vive un simile stato di deprivazione: semibernato, ferito su tutto il corpo, costretto a strisciare nei boschi con metà del corpo fratturato. Il risultato della sua performance attoriale è ovviamente carico al di là di qualunque immaginazione. Cosa si prova a essere trasportati dalla corrente in un fiume gelato mentre ti arrivano frecce da ogni lato? E a cauterizzarti da solo ferite profonde come solchi con la polvere da sparo?

The revenant è solo uno dei modelli di questo nuovo cinema muscolare: se, per esempio, un paio d’anni fa in Gravity guardavamo Sandra Bullock restituire allo spettatore l’emozione di qualcuno sballottato nello spazio a una velocità supersonica mentre l’ossigeno sta per finire, quest’anno tra i candidati all’oscar come migliore attore c’è anche Matt Damon, che in The martian interpreta un astronauta che, unico sopravvissuto a una missione spaziale su Marte, deve resistere anni prima che qualcuno lo venga a salvare, centellinando cibo, ossigeno e sanità mentale, vagando, lacero e piagato, con un trabiccolo sul pianeta rosso per più di un anno.

Il risultato di queste performance sullo schermo è spesso di darci la sensazione di avere di fronte forse un eroe, sicuramente un malcapitato che sta per svenire o che comunque prova delle emozioni che davvero raramente un essere umano potrà mai sperimentare. Perché Hollywood allestisce per noi spettatori storie che non sono interessate alla condizione dell’uomo come essere limitato, ma come una specie di oltreuomo?

Debiti d’autore e onnipotenza tecnologica

Credo sia una domanda interessante per due motivi. Il primo è che il debito di registi come Iñárritu, Alfonso Cuarón o Ridley Scott nei confronti di autori come Stanley Kubrick, Terrence Malick o Werner Herzog non è solo evidente ma anche esplicito.

2001: odissea nello spazio. (Everett/Contrasto)

Come praticamente tutto il cinema di fantascienza – da Gravity a Interstellar – è ancora in debito con la grammatica segnata da Kubrick in 2001: odissea nello spazio (il rapporto tra umano e macchina, il senso di frontiera nell’universo infinito, la distorsione del tempo), così la regia famelica di Iñárritu in The revenant cita non solo il fascino per i paesaggi naturali di film come Il diamante bianco o The new world, ma è come se cercasse di superare i maestri nel riuscire a inquadrare questa feroce bellezza oltre i limiti che loro stessi avevano mostrato. Le immagini delle cascate di The revenant sembrano dirci che il cinema oggi può arrivare dappertutto, proprio dove invece le stesse meravigliose scene di cascate del Diamante bianco e le difficoltà tecniche nel girarle ci suggerivano per fortuna il contrario: che qualcosa resta invisibile.

Ed è lo stesso quando si parla di uomini: in molti film di Herzog, per esempio, si raccontano le parabole di persone che per uno strano sentimento che vive tra la follia e il coraggio lanciano sfide ai limiti dell’umano o che sopravvivono a eventi catastrofici (vedi il bellissimo documentario Wings of hope sulla storia di Juliane Koepcke, superstite all’incidente di un aereo precipitato nella foresta peruviana), ma in ogni caso Herzog ci tiene ad arrivare a una soglia al di là della quale non ha senso spingersi.

Anche il bravissimo attore umano nel giro di qualche anno sarà una tecnologia antiquata

Parliamo della lotta con l’orso. Nel documentario Grizzly man, Herzog sceglie di raccontare il personaggio di Timothy Treadwell, un esploratore ambientalista che per tredici anni vive gran parte del suo tempo tra gli orsi in un parco nazionale in Alaska, finché viene ucciso da uno di questi animali. Tra l’enorme materiale girato che Herzog ha a disposizione (tra cui oltre cento ore di filmati fatti da Treadwell stesso), si trova anche l’audio di una telecamera che è rimasta accesa al momento dell’aggressione fatale dell’orso a Treadwell: i rumori della lotta e le ultime parole e le urla prima della morte. Herzog decide scientemente di non farle sentire allo spettatore. S’infila una cuffia con la registrazione audio e noi vediamo solo la sua faccia corrucciata mentre lo ascolta. La scena ha una potenza emotiva che raramente si trova al cinema.

Ma c’è un secondo aspetto che questo cinema iperestetico produce: l’onnipotenza attuale della tecnologia di postproduzione oltre a mostrarci realisticamente scene e luoghi che mai avremmo immaginato di poter vedere, ci rivela anche come in un’industria culturale del genere anche il bravissimo attore umano nel giro di qualche anno sarà, per dirla con Gunther Anders, una tecnologia antiquata; sostituibile da un lavoro di postproduzione sulle espressioni facciali o sulla voce che sarà in grado di simulare in modo perfetto qualunque emozione possa servire al regista. Compresa – chessò – quella di un tizio con una sega elettrica in corpo, o che rimane a testa in giù per venti ore.

Non è solo lo scenario che ipotizzava Mark Hamill in un’intervista di qualche anno fa, parlando della novità di status che Star wars aveva portato non solo nell’immaginario ma nel modo di fare cinema: “Ho il sospetto che se Lucas avesse la possibilità di fare un film senza attori lo farebbe”. È anche quello che accade definitivamente nella Hollywood distopica immaginata da Ari Folman in The congress (2014) e ancora più semplicemente quello su cui oggi stanno lavorando varie industrie del cinema, per creare una tecnologia di scansione facciale e corporea in 3d con la quale in un futuro prossimo non dovremmo più preoccuparci se in quella scena mentre veniva scuoiato, l’espressione di Leonardo DiCaprio era tanto intensa e credibile da meritarsi davvero un premio Oscar.

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