05 febbraio 2016 14:58

I ragazzi muoiono. Giulio Regeni aveva 28 anni ed era al Cairo a fare una ricerca di dottorato sull’economia egiziana. In realtà – credo sia evidente a tutti – era uno che faceva coraggiosamente anche il giornalista free lance e cercava di riportare un minimo di verità e di luce su un paese governato dal regime militare oppressivo guidato dal generale Al Sisi. Era un giornalista senza protezione, il Manifesto che pubblicava i suoi pezzi era purtroppo una testata debole per garantirgliene una.

Soprattutto se si tiene conto che negli ultimi due anni in Egitto sono state uccise – stando ad Amnesty international – 1.400 persone ritenute oppositori del regime, e che nel paese sono all’ordine del giorno arresti di giornalisti indipendenti. L’impunità dei militari non si ferma neanche di fronte all’autorevolezza di un network come Al Jazeera: ad agosto due suoi giornalisti, Mohamed Fahmy e Baher Mohamed, accusati di aver “diffuso notizie false”, erano stati condannati a tre anni (poi sono stati graziati) per aver dato attraverso le loro inchieste copertura mediatica alle attività dei Fratelli musulmani.

È un fatto innegabile l’indulgenza che Matteo Renzi ha mostrato nei confronti dell’autoritarismo di Al Sisi

Dall’altra parte però la morte di Giulio Regeni non parla soltanto del metodo intimidatorio del potere di Al Sisi, ma anche della debolezza che spesso il governo italiano mostra in queste situazioni. Possiamo sperare che stavolta sia diverso, ma è un fatto innegabile l’indulgenza che Matteo Renzi ha mostrato più volte nei confronti dell’autoritarismo di Al Sisi, a partire dall’imbarazzantissima intervista di luglio ad Al Jazeera quando lo definì “a great leader”, derubricando la questione degli attacchi seriali ai giornalisti a una sorta di inevitabile danno collaterale del nuovo potere egiziano.

Ma l’aspetto ancora più triste della morte di Giulio Regeni – che ha tutti i tratti di un omicidio per agguato e morte per tortura per il quale Renzi chiede semplicemente “chiarezza” – è che non è e non sarà un caso isolato.

Succede anche in un paese come l’Italia, così preso dalle piccole beghe nazionali e devastato dall’antipolitica, che ci siano ragazzi e ragazze, uomini e donne che partono per documentare la violenza di regimi oppressivi e aiutare le popolazioni coinvolte. È accaduto a Giovanni Lo Porto, il cooperante ucciso in Pakistan da un attacco con i droni statunitensi, per il quale il governo italiano non è riuscito ad avere informazioni e scuse adeguate dal presidente Obama e ad allestire un decente momento di commemorazione nell’aula di Montecitorio.

È accaduto ad Andrea Rocchelli, fotoreporter ucciso in Ucraina nel maggio del 2014, che non ha meritato nemmeno una dichiarazione di condoglianze da parte di Renzi, e per cui – come ha ricordato recentemente Lucia Sgueglia – è stata aperta un’inchiesta di cui non importa a nessuno e che sta cadendo nel vuoto.

In tutto questo colpisce ascoltare ogni volta il presidente del consiglio parlare della sua vocazione politica come quella di un ragazzo che ha scelto di impegnarsi perché si trovava nel mezzo di quella grande fase di pacifismo internazionale degli anni novanta, negli anni della mobilitazione contro la violenza delle guerre nell’ex Jugoslavia e dei massacri in Ruanda. Di quella vocazione evidentemente non è rimasto molto.

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