24 novembre 2014 14:36

Per i distratti, o per chi non c’era.

Il primo nucleo degli EelST si forma nel 1980 (Elio ha diciannove anni), ma il loro primo disco esce nel 1989: per quasi un decennio si limitano a fare concerti a Milano e in Lombardia e il successo (che è già però un successo interregionale: nella mia cameretta di Torino arrivano verso il 1983-84) cresce attraverso il passaparola e – i lettori sotto i trent’anni si facciano spiegare da un anziano – attraverso le cassettine doppiate da un amico di un amico di un amico, registrazioni dal vivo che di copia in copia finivano per essere praticamente inudibili, un unico lunghissimo effetto neve sonoro: capire il testo di Cara ti amo, che è recitata non cantata, era già una fatica; per i doppi o tripli sensi osceni di Nella vecchia azienda agricola (”c’è la cozza tattu piane di sbarro”) non c’era speranza: avremmo dovuto aspettare i dischi, la consulenza di amici più informati, internet.

Il libro Vite bruciacchiate (Bompiani 2006), che racconta la storia del gruppo anche attraverso le voci di chi li conosce, è pieno di storie eroiche su questi anni di gavetta passati a provare nel seminterrato di un ristorante, proprietà del padre di Faso, e a suonare un po’ dappertutto per pochi soldi. Ecco un fine-serata abbastanza tipico (parla Elio):

Integro con alcuni ricordi che emergono dalle nebbie. Dal ristorante ce ne andammo senza mangiare e ripiegammo su un bar che ci servì brioche al colesterolo e patatine. La danzatrice a petto nudo si chiamava Fabiana. I soldi andai a recuperarli io rischiando la pelle, e il gestore bastardo mi diede cinquantamila lire in meno.

Il libro è tutto così, uno splendido libro corale: Fabiana, il gestore ladro, pochissime groupies (”In quegli anni sembravamo ricoperti di antifiga, un preparato che allontana qualsiasi forma di vita femminile”), e una tale quantità di amici musicisti da far sospettare che tutti i milanesi ventenni di allora conoscessero gli EelST o qualcuno che conosceva gli EelST, sospetto che si rivela subito fondato quando s’interrogano i quarantacinquenni milanesi di oggi, perché sono tutti perlomeno amici di amici, e tutti li hanno visti suonare in un locale mezzo vuoto di Milano molto prima che diventassero famosi.

Nel 1989 esce Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu (che vuol dire qualcosa di atroce, in cingalese), che vende più di centomila copie. Seguono altri otto album, più varie raccolte live. Nel 1996 vincono, arrivando secondi (la contraddizione è solo apparente), il festival di Sanremo. Nel 1997 girano un film porno con Rocco Siffredi. Negli anni zero, singolarmente o in formazione completa, fanno concerti, teatro, radio, libri, arrivano a RaiTre, arrivano a La7, diventano mainstream, arrivano un’altra volta secondi a Sanremo. Oggi, a più di trent’anni dall’esordio, sono forse gli unici in Italia, insieme a Vasco Rossi, ad avere un vero successo intergenerazionale, dai teenagers ai giovani nonni, diciamo.

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A vedere le cose da fuori, questo successo è indossato con ammirevole understatement. Candidati a un premio allo Mtv European Music Award del 1999, vanno a Berlino a loro spese, senza ufficio stampa, perché per la casa discografica una loro vittoria non è proprio possibile. Riescono a entrare e a mangiare in zona vip “solo grazie a un amico tecnico della band di Ligabue che gli passa sottobanco i buoni pasto” (testimonianza di Luca Chiabotti). Vincono. Ma non hanno né i loro cd da far ascoltare ai giornalisti europei né una cartella-stampa, così montano una specie di spettacolino comico: “Siamo venuti solo per dirvi che la pasta non va cotta venti minuti e soprattutto non va condita col ketchup”.

E il prezzo che bisogna sempre pagare per il successo? Non c’è, si direbbe: non per loro. Niente deliri narcisistici, niente pose da guru, niente cliniche di riabilitazione, forse anche per una circostanza pratica banale: che il successo è arrivato piano piano, col tempo, e altrettanto lentamente sono arrivati i soldi, per altro da dividere tra sei-sette persone: il che aiuta a tenere i piedi per terra. Tempo fa Linus ha riferito una confidenza fattagli da Elio: “Linus, ma ti rendi conto? Io ho cinquant’anni e non ho mai comprato una casa!”.

E scommetto anche che Elio e gli altri si tengono la stessa macchina per dieci anni, e la lavano di rado, non stanno a pensare troppo alla marca dei vestiti che indossano, non vanno in palestra, o lo stretto necessario. Perché hanno cose molto più serie da fare, hanno una vocazione da seguire, quella vocazione che, mancando, porta gli esseri umani a spendere il loro tempo in attività come la compravendita di case, il lavaggio macchina, Dolce & Gabbana, l’epilazione.

E il prezzo non è stato neppure lo snaturamento, o la maniera. Col passare degli anni gli EelST non si sono limitati a ripetere la stessa ricetta demenziale dei primi album (gli Skiantos e gli Squallor si sono consumati così), e hanno semmai complicato, non semplificato, le loro canzoni. I pezzi post-duemila sono più elaborati e più difficili di quelli degli anni ottanta, sia la musica sia le parole. Per esempio: la colonna sonora di Tutti gli uomini del deficiente (1999) ha venduto pochissimo, anche se (o forse proprio perché) contiene pezzi originali notevoli, e due cover, da Zappa e dagli Area; commento degli EelST: “In realtà, noi scegliamo sempre strade in teoria meno commerciali che dovrebbero farci vendere di meno perché siamo convinti che così vendiamo di più. È un ottimo stratagemma, con un solo punto debole: non funziona”.

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La formazione degli EelST è rimasta praticamente intatta dagli anni ottanta a oggi: Elio (testi, voce); Rocco Tanica (testi, tastiere, voce); Faso (basso); Cesareo (chitarra); Chistian Meyer (percussioni). Si è aggiunto nel 1999 Jantoman (tastiere); si è aggiunto nel 1992 l’architetto Mangoni, compagno di scuola di Elio che – come si legge nel sito della band – “viene chiamato a fare se stesso sul palco (un pirla, icona definitiva del pirla che è in ciascuno di noi), pur essendo nel frattempo diventato marito e padre amorevole nonché stimato architetto”.

L’unico che non risponde all’appello è Feiez, vero nome Paolo Panigada, che cantava e suonava un po’ tutti gli strumenti, ed è morto improvvisamente per un aneurisma nel dicembre del 1998. Feiez era uno della ventina di soprannomi che nel tempo gli aveva affibbiato Faso: e il nome, i nomi inventati innescano il “processo di tormentonizzazione”, e cioè “la creazione di un mondo immaginario in cui il soggetto ha una sua storia personale più o meno particolareggiata e surreale” (che è lo stesso meccanismo infantile che sta alla base di parecchie canzoni degli EelST).

Il nome “Feiez” era arrivato dopo (o in alternativa sincronica a) Mu Fogliasch, a Véseghel, a Visent, e anche a Panino (”No, dai”, aveva commentato Feiez, “Panino no…”): il coro “Forza Panino”, verso la fine di Tapparella, è per lui. E sono dedicate a lui anche le ultime pagine di Vite bruciacchiate, scritte da Rocco Tanica, pagine che sono come il rovescio e il complemento tragico di quelle splendidamente comiche che Rocco Tanica ha scritto, nello stesso libro, su altri momenti topici nella vita della band – mi sono venute per due volte le lacrime agli occhi, leggendo Vite bruciacchiate, la prima per il divertimento e la seconda per la commozione, e questo è molto di più di quello che in genere si chiede alla biografia di un gruppo pop-rock.

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Della morte dell’amico gli EelST parlano, oltre che in Vite bruciacchiate, nelle quarte di copertina dei loro cd. Dato il tipo di musica che fanno gli EelST era difficile parlarne nelle canzoni, perché non c’è una sola riga dei loro testi che non miri a far ridere e che non prenda in giro qualcosa o qualcuno: l’incompatibilità è evidente. Ma la canzone Bis, senza esserlo mai esplicitamente, è chiaramente un pezzo inmorte, e quelle con cui la canzone si chiude sono forse le uniche parole serie, indisponibili alla parodia, che gli EelST abbiano mai messo in una loro canzone: “Ma la vita non ti dà la possibilità di un bis / anche se sarebbe bello”.

Che è un’ovvietà sdolcinata, naturalmente: ma a renderla toccante è il fatto che, come succede spesso, Elio gioca con la metrica, e pronuncia la prima frase a velocità supersonica (troppe sillabe in poche note), la seconda con una cadenza da filastrocca (meno sillabe di quelle che servirebbero), come se prendesse in giro la sua stessa seriosità: anche seeee sareeeeebbe bello (è la stessa ironia che c’è, poco prima, in “questa è la vita”, pronunciata come se fosse incisa nel marmo); e anche il fatto che arriva, inaspettata, alla fine di una canzone piena di scherzi e di turpiloquio, che non predisponeva alla commozione […].

La qualità più notevole degli EelST è la capacità di vedere le cose. È la dote che hanno i poeti, è la ragione per cui leggiamo poesie: Seeing Things è il titolo di un libro di Seamus Heaney. Chi ha letto La pantera di Rilke non guarda più con gli stessi occhi l’animale in gabbia allo zoo. E chi ha letto i versi centrali del canto XXIII del Paradiso (”Come a raggio di sol, che puro mei…”) se li ricorda ogni volta che gli capita di vedere in lontananza, mentre il cielo sopra di lui è coperto, un prato illuminato dal sole. Naturalmente i poeti trasfigurano il loro quotidiano, non il nostro, e si chinano più volentieri sul sublime che sulle piccole avventure dell’uomo medio sensuale. Ebbene, gli EelST hanno preso in carico questo spicchio importantissimo di realtà. La festa delle medie non esisteva veramente, non era ancora stata veramente vista, prima che gli EelST la vedessero e la descrivessero in Tapparella. Il lato umiliante degli amori adolescenziali aspettava ancora i suoi cronisti: Servi della gleba è questa cronaca. E chi riflette mai sul destino disgraziato di tanti ex giocatori di calcio? Gli EelST lo hanno fatto – tragicomicamente, come andava fatto – in Sunset Boulevard.

Al grado zero, poi, le cose sono semplicemente le cose, e la stessa pietas si distende sugli oggetti, proprio nel senso dell’oggettistica da fabbrichetta brianzola: e genera una canzone sul box doccia (Plafone) o una su “un venditore di cacciaviti in laminato plastico” che è costretto a portare in giro il suo campionario senza la macchina (Abbecedario). “Ha ampliato in maniera decisiva il vocabolario della poesia” è la formula che sui manuali di letteratura si trova riferita praticamente per qualsiasi poeta, da Cielo d’Alcamo a Edoardo Sanguineti (l’idea-guida è “Petrarca contro il Resto del Mondo”). Nella breve storia della canzone è difficile non dire la stessa cosa degli EelST: è difficile negare agli EelST un posto in questa piccola frangia di rivoluzionari, insieme a Gaber, Jannacci, Gaetano e ovviamente, prima e più in alto, Zappa […].

Come hanno un radar per gli aspetti grotteschi della realtà, così gli EelST hanno un orecchio sensibile alle frasi fatte e ai clichés che tracimano dalla pubblica conversazione. La Bulgaria è “una nazione leader nel settore” (Pipppero: gergo merceologico); “Tra le maschere che un uomo può portare ricordiamo l’argilla” (Shpalman: dove ricordiamo all’inizio dell’elenco viene dal tema delle medie). E l’idioletto preferito, il più parodiabile, è ovviamente quello del pop: il sintagma “scampoli d’assenza”, nella canzone Rapput, “non significava veramente niente ma […] sarebbe stato perfetto in un sacco di canzoni di quegli anni”. E questo avvio crepuscolare – “Gli ombrelloni ripiegati e le sdraie / un’altra estate che se ne va / e io qui che mi ritrovo da solo” – sarebbe perfetto per una canzone da Festivalbar, salvo che c’è il milanese sdraie al posto di sdraio e salvo che dopo “mi ritrovo da solo” il testo prosegue “a pensare all’aborto… / Aborto aborto smaliziato dove vai…”.

Ora, l’ironia sulla lingua di plastica è un passatempo comune tra gli intellettuali, e l’orecchio degli EelST non è più raffinato di quelli di Fruttero e Lucentini, o di Arbasino. Solo che quella degli EelST non è quasi mai veramente ironia, e meno che mai sarcasmo. Al contrario, è come se le parole più usurate venissero convocate, nei racconti e nelle canzoni, per affetto, è come se ripeterle, isolarle, scavarci attorno, corrispondesse non a un’intenzione di censura ma al desiderio di appropriarsene, di lucidarle e farle brillare.

Nelle fiabe di Elio c’è la renna che suda “col rischio di prendersi un accidente”, che è un’espressione da mamma, di cui si sorride senza sarcasmo, perché fa tenerezza. Nel parlato finale di Fossi figo c’è il lamento di uno che è tutto il giorno che va “in giro a far ballare i piedi”, che è gergo stakanovista lombardo (e infatti spesseggia nei blog padani, contro l’ignavia meridionale). E c’è poi la fascinazione per la parola strana o desueta, dissonante. Il racconto di Elio Il motociclista che sapeva destreggiarsi nel traffico ruota attorno ad una di queste parole-fantasma, destreggiarsi: “Si arrivò al punto di creare del traffico artificiale anche nelle ore notturne per invogliarlo a destreggiarsi”. Nel racconto di Rocco Tanica Conseguenze della mia dabbenaggine (breve memoir scritto dal killer inconsapevole di Jfk) la parola dabbenaggine è ripetuta così spesso che il fuoco del racconto finisce per essere lei, la parola, e non l’omicidio.

La canzone Catalogna ripete fino allo sfinimento, fino al nonsenso, la parola catalogna. È una fascinazione puerile, il tipo di tormentone che nasce sui banchi di scuola, dove qualsiasi cosa fa ridere, e una parte del divertimento e del piacere che dà l’ascolto degli EelST sta evidentemente nel fatto che riconosciamo il meccanismo, l’alone di surrealtà che circonda certe parole, e che ci fa ridere o sorridere. Finita la scuola, mentre tutti gli altri hanno dovuto mettere la cravatta, gli EelST hanno trovato Cordialmente, il programma su Radio Deejay dove collaudano i tormentoni che finiranno nei racconti e nelle canzoni. Da vent’anni Cordialmente è il laboratorio degli EelST: e il piacere con cui lo si ascolta deriva da un lato dal loro stesso divertimento, un divertimento che per una volta non è simulato, non è televisivo; dall’altro, dalla sensazione di far parte, per qualche minuto, di una compagnia di amici molto affiatata, i più simpatici del liceo.

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La variante estrema di questo gusto per il suono più che per il senso delle parole è il catalogo del collezionista. Questo è l’inizio di Supergiovane – tutti attributi o parole o cose che riguardano il Giovane (cioè il giovane degli anni Settanta: figu sta per “figurine”, il Garelli era un motorino, Oklahoma era il nome di una pistola ad aria compressa):

Argento vivo, sbiancate, figu, Oklahoma, sigarette, puttano, paciugo, garelli, smarmittare, figa, figa pelosa, figlio di puttana, porco diesel…

E questo è il finale:

Siamo forse secchioni? No. Siamo forse matusa? No. Siamo forse governi? No. Siamo forse checchineris? No. Siamo forse bulicci? No. Iarrusi? Buhi? Puppi? Posapiano? Orecchioni? Mangiatori di fave? Orrendi? Rammendati? Giuisci? Meiusi? Magutti? Fenderi? Finestrati? Oietti? Samanettati? Rautiti? Semeiuti? Aperitaviti? Aperitivi? “Sì”.

Su matusa e governo torno più avanti. Da Checchineris a Orecchioni è slang per “omosessuali” (a parte Posapiano). Anche i Mangiatori di fave? O è un’allusione al favismo? Rammendati sono forse quelli che si fanno il lifting. Dopodiché si scivola nel nonsenso, cioè nella parodia del gergo giovanile, quello che negli anni ottanta aveva prodotto i paninari e le sfitinzie. In confronto, i cataloghi di Arbasino sono più facili perché sono meno incoerenti (L’ingegnere in blu, Adelphi 2008, p. 119):

E dopo la fase degli “oidi” in auge ai tempi degli intellettualoidi e mattoidi e cretinoidi “before our time”, le “stupidere” in voga negli anni trenta e quaranta fra i programmi di varietà dell’Eiar e i giornali umoristici tipo Bertoldo e Marc’Aurelio […]: gagà e gagarelle e gagaroni, pisquani, fresconi, maschioni, simpaticoni, tontoloni, brutaloni, tardone, vedovone e vedovelle, pivelli, picchiatelli, cretinetti, cretinoschi, zuppatori e zappatrici, scemi di guerra e poi tipi da spiaggia, navi-scuola, racchie, stellasse, fessacchiotti, mascotte, limonare, pomiciare, appariscente, effervescente, cercopitechi…

Il radar degli EelST impazzisce soprattutto quando capta le belle parole e le belle idee che a forza di essere ripetute a vanvera sono diventate stucchevoli, e si possono citare solo ridendo. In particolare 1) l’amicizia: “State ruotando le dita? State unendo le falangi? State stringendo amicizia con persone che hanno il colore della pelle diverso dal vostro? Bravi” (Pipppero), 2) i giovani. Qui in lotta coi matusa e col governo: “Com’è noto, il nemico numero uno dei giovani è il governo, alleato coi matusa per impedire ai giovani di essere tali”. Qui fieri delle loro armi incruente, da opporre alla violenza del Potere: “La simpatia, l’umorismo, la gioia di vivere e l’argento vivo addosso”. Qui spavaldi, genere con tutte le ragazze sono tremendo: “Noi siamo i giovani / con i blue jeans”. E soprattutto 3) l’amore, che offre l’ispirazione a tutta una serie di anti-elegie spietate, la più famosa delle quali è Cara ti amo (che finisce appunto con “Evviva l’amo-o-o-o-oreeee!”); ma la più famosa non è anche la più cruda, perché questo titolo spetta semmai a L’indianata (”Di fronte all’amore / c’è poco da dire / c’è poco da fare / non resta che bere”: parla una casalinga alcolizzata), o al capolavoro che è Servi della gleba.

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Questo brano è tratto dal saggio di Claudio Giunta Un’altra magnifica cosa pop. Elio e le storie tese, compreso nel volume Una sterminata domenica. Saggi sul paese che amo (Il Mulino 2014).

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