28 ottobre 2016 15:32

A Fiumara, sulla spiaggia di Fiumicino, vicino a Roma, c’era una grande statua di Sophia Loren. Una colossale, formosa pizzaiola di Pozzuoli che sorgeva dalle acque, sotto di lei un branco di delfini guizzanti. In realtà la statua era una Venere scolpita dallo scultore bulgaro naturalizzato romano Assen Peikov, lo stesso del grande Leonardo Da Vinci benedicente che veglia sull’aeroporto di Fiumicino. Sophia Loren aveva visitato lo studio di Peikov a via Margutta nel 1954 e si era fatta fotografare in posa davanti al poderoso busto. Le foto sono uscite sulle riviste e da allora, la Venere di Fiumara (decapitata e smembrata da una mareggiata negli anni settanta) è diventata una specie di omaggio alla prorompente bellezza della diva. Un involontario monumento alla nascente dolce vita che mescolava intenzioni classicistiche a un immaginario pop da rotocalco illustrato.

Il colosso della Loren e tanti altri cortocircuiti tra arte contemporanea, costume, gossip, storia del gusto e del kitsch, sono raccontati nella mostra Boom 60!, al Museo del 900 di Milano fino al 12 marzo 2017. Un centinaio di opere (per lo più provenienti dal museo o dalla collezione Boschi Di Stefano) dialogano con ritagli, copertine, pubblicità tratti dai mensili di attualità illustrata o dai rotocalchi. Tra gli anni cinquanta e sessanta, in pieno boom economico, anche l’editoria popolare era in fase espansiva: Epoca, Tempo, Le Ore, Oggi, Gente, L’Europeo, L’Espresso, Successo, La Domenica del Corriere e La Tribuna Illustrata avevano tirature record (impensabili oggi) e una diffusione che spesso superava quella dei quotidiani. I rotocalchi erano, in quegli anni, il vero specchio della mentalità ma soprattutto delle aspirazioni degli italiani.

Questi giornali, letti per lo più da un pubblico piccolo borghese lontano dai dibattiti culturali, avevano con l’arte contemporanea un rapporto ambivalente. Sicuramente ne riconoscevano lo status. Intorno all’arte girava un mondo di ricchi, di belle donne e di feste internazionali. C’erano i soldi e le terrazze di via Sistina o di Trinità dei Monti, e il borghese italiano era più che mai affamato di nuovi modelli di ricchezza e di fascino. Il mondo dell’arte, con i suoi eccessi e le sue stranezze, scorreva parallelo a quello del cinema nell’immaginario collettivo. In più, si cominciava a parlare dell’arte moderna come investimento e anche il pubblico più generalista imparava a conoscere, con un po’ di timore reverenziale, la figura del “mercante d’arte” o del gallerista.

Alberto Sordi guarda l’opera “Nudo” di Alberto Viani alla Biennale di Venezia del 1958 . (Cameraphoto)

D’altra parte però l’arte contemporanea era vista come strana, ermetica, incomprensibile. O semplicemente brutta. Per un pubblico non ancora affrancato da un’estetica primo novecentesca, fatta di polverosi ritratti di famiglia, brutte riproduzioni di Botticelli o di Raffaello, fatta insomma di quelle “buone cose di pessimo gusto” di gozzaniana memoria, i tagli di Lucio Fontana o i sacchi di Alberto Burri erano duri da digerire.

I rotocalchi dunque, pur facendo leva sul glamour dell’arte contemporanea, facevano in modo che il lettore non si avventurasse troppo fuori dalla zona di sicurezza delle sue certezze estetiche. La faccia perplessa di Alberto Sordi alla Biennale di Venezia del 1958 che guarda dentro al buco di un nudo dello scultore Viani, esemplifica il rapporto canzonatorio che “il borghese piccolo piccolo” aveva con le forme e i materiali dell’arte moderna. Sì, c’è interesse, curiosità ma c’è anche scetticismo: “Ma che è arte questa? E questo sarebbe un nudo?”

I sacchi di Burri dunque sono “stracci”, le sculture metalliche di César e di Ettore Colla sono “rottami”, le vignette satiriche ripresero il luogo comune della scimmia a cui viene data una scatola di colori per creare “arte astratta”, una battuta che fecero già i primi critici di Claude Monet negli anni settanta dell’ottocento. La rivista Epoca arriva a descrivere la Biennale del 1964 come “un magazzino di cianfrusaglie”.

Stracci e chiodi sulla laguna, Gente 1960.

Anche quando vuole essere elogiativo, il rotocalco tendenzialmente legge le opere d’arte attraverso la lente del luogo comune e della formula preconfezionata. Guttuso è “il pittore della realtà”, Fontana “l’astronauta dell’arte” e i pittori naïf sono tutti “fratelli del Doganiere” e Salvador Dalí, con le sue infinite trovate, è un “professionista del genio”. Gli artisti che sfondano e che ottengono successo commerciale sono definiti come “la bohéme in fuoriserie”: il pittore Roberto Crippa, per esempio, era più che altro citato in quanto possessore di un aereo privato.

In Boom 60! il dialogo tra arte contemporanea e immaginario popolare è forse descritto in modo un po’ troppo univoco. Pur lambendo (soprattutto con i lavori di Enrico Baj in mostra) gli inizi della pop art, la mostra glissa su quel momento della storia dell’arte in cui sono gli artisti stessi ad attingere forme, modalità e linguaggi dai mezzi di comunicazione di massa.

Al di là del gioco dei rimandi con i rotocalchi, molto riuscito, la mostra ha pochi pezzi memorabili: un nudo di Viani del 1956, un notturno torinese di Casorati (1954) e Ondulazione marina, una grande tela di Renato Birolli (1955). L’allestimento, curato dall’atelier Mendini, funziona meglio negli spazi più ampi, nelle nuove sale del Museo del 900, sulla piazzetta reale, l’effetto accumulo, un po’ da esposizione da casa d’asta, rischia di essere soffocante. Nel complesso Boom 60! è un’operazione intelligente che dimostra come, con una buona idea curatoriale, anche una mostra tutto sommato povera possa stimolare riflessioni e suggerire nuovi percorsi.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it