15 novembre 2023 07:49

“Wendy James è la nuova Kylie Minogue?”, così titolava il settimanale Smash Hits nell’aprile 1989. Non solo non lo era ma, pur facendo lo stesso mestiere nello stesso periodo (e per un pubblico simile al suo), Wendy James era l’opposto di Kylie: era la sua nemesi.

Quando uscì come front woman dei Transvision Vamp, nel 1988, Wendy James era indubbiamente una pop star: ossigenata e imbronciata come Deborah Harry, provocante e provocatoria come Madonna, era vestita con jeans strappati e accessori da signora anni sessanta (guanti di raso, gioielli e borsetta), l’antitesi del sex appeal da pubblicità del dentifricio della Kylie di allora. E anche la sua musica era l’opposto della pop-dance patinata e robotica dei produttori Stock, Aitken e Waterman, il trio che nella seconda metà degli anni ottanta puntava dritto alla giugulare delle classifiche con artisti come Rick Astley, Bananarama e, appunto, la prima Kylie Minogue.

In quella stessa doppia pagina di Smash Hits, Wendy James elencava i suoi artisti preferiti: Sex Pistols, Buzzcocks, Mudhoney, Iggy Pop ma anche Bob Dylan e i Cowboy Junkies. E (un po’ a sorpresa) anche Prince. Insomma, James ci teneva a non apparire come una svampita bambolina pop: eppure il power-pop vagamente punkeggiante dei Transvision Vamp stava penetrando proprio nella top 10 dei singoli più venduti nel Regno Unito.

Come i Sigue Sigue Sputnik subito prima di loro, che avevano ibridato il pop anni ottanta con lo psychobilly e il punk, i Transvision Vamp avevano creato una miscela esplosiva di glam rock, vecchio rock’n’roll e synth pop che apparentemente (ma solo apparentemente) era agli antipodi del pop che andava in classifica.

L’estetica dei Transvision Vamp era un po’ street style da Oxford street anni ottanta, un po’ Blondie e un po’ punk rock, e le loro canzoni erano piene di riferimenti, accuratamente decontestualizzati, alla controcultura degli anni sessanta e alla Factory di Andy Warhol che, incidentalmente, era morto poco prima che loro entrassero in sala di incisione per registrare il loro album di debutto.

Wendy James è una studente di teatro a Brighton quando, nel 1983, incontra il chitarrista Nick Sayer. Lei è una ragazza magrissima, bionda e di origini norvegesi (era stata adottata da una famiglia inglese da piccolissima), lui un cantautore, grande appassionato di Bob Dylan e di Lou Reed, alla ricerca di una voce per le sue canzoni. Wendy James è la voce e la front woman che cerca. Insieme cominciano a comporre canzoni e a registrare demo: le parole gli arrivano dalla fantascienza e dai fumetti e proprio mentre compongono la colonna sonora per un film immaginario intitolato Saturn 5 (un seguito possibile di Saturn 3 con Kirk Douglas) gli viene in mente il nome per il loro duo: Transvision Vamp. Di lì a poco si aggiungono al duo il bassista Dave Parsons, il tastierista Tex Axile e il batterista Pol Burton.

Il lavoro sul loro album di debutto, astutamente intitolato Pop Art, dura due anni e viene accelerato quando i Transvision Vamp hanno la loro prima hit con un pezzo power-pop intitolato I want your love.

Niente ciarpame, solo amore
I want your love è un pezzo pop rock tanto stupido quanto potente e fa subito centro entrando al numero cinque della classifica britannica. Wendy James non vuole i tuoi soldi ma vuole il tuo amore; non vuole la tua macchina, certo, ma non vuole neanche il tuo affetto. Soprattutto, e questa è la parte del testo più rivelatrice dell’estetica post-pop dei Transivsion Vamp, non vuole le tue foto, i tuoi libri su Bob Dylan e Marilyn Monroe, non vuole i tuoi dischi, i tuoi poster e tutto il ciarpame che ti rende quello che sei. Nel video Wendy James è una vamp iconoclasta fasciata in un abitino minuscolo che irrompe con la sua band nella cameretta di un ragazzo tappezzata di poster. Su una parete c’è il manifesto del film Betty Blue in bella evidenza e lei è una Barbie punk che diventa viva, una fantasia adolescenziale che si materializza tra lenzuola poco pulite, cumuli di giornaletti e calzini puzzolenti. E cosa vuole? Vuole il tuo amore ma lo vuole subito e i tuoi stracci da nerd della musica te li puoi tenere. Cosa ama lei di te? Solo “la tua motivazione e la tua disperazione”.

Una delle grandi hit dimenticate degli anni ottanta
I want your love è una delle grandi hit dimenticate degli anni ottanta: è predatoria, aggressiva, ironica, cattiva e mostruosamente sexy. Non ha nulla di raffinato o intelligente: punta dritto al disperato desiderio sessuale degli adolescenti con un suono all’apparenza caciarone e scomposto ma in realtà ben studiato per saltarti addosso dalla radio o da Mtv quando meno te lo aspetti. È pop music per chi non ne poteva più della pop music degli anni ottanta, un’overdose di zucchero e di caffeina.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Trash city, la canzone che apre l’album ha poco a che vedere con l’omonima Trash city di Joe Strummer che usciva in quello stesso anno. È il manifesto dell’estetica post-pop dei Transvision Vamp: una voce robotica enuncia una sorta di genealogia evolutiva della cultura pop: “Da Easy rider a Star wars, da Che Guevara a Laurie Anderson, dai giochi di luce ai video, dall’lsd a Mtv, dallo zaino in spalla (backpack in inglese) a Pac-Man… da Oh wow ai Transvision Vamp!”

La band s’inserisce nel grande flusso della storia del pop e si presenta già dal principio come sottoprodotto, come cascame di quella cultura dell’intrattenimento sempre più accelerata: “Il successo è credibilità e la credibilità è successo”, grida Wendy James. Non importa essere finti, anzi più si è finti e meglio è. È il successo che ti rende credibile, che ti rende la regina di questa città della spazzatura.

Tutto l’album è un gioco di rimandi tra controcultura fricchettona e consapevole “plasticosità” anni ottanta. Revolution baby sembra un pezzo dei T-Rex tirato a lucido e Psychosonic Cindy (già il titolo sembra il nome di una superstar perduta di Andy Warhol) sembra eseguita dai Blondie sotto steroidi. Wild star è la serenata a un ragazzo bello, sfaccendato e ovviamente bravo a letto: “Sei il mio ragazzaccio-missile, il mio eroe. Tu non ti muovi ma scivoli via…”, e Sister Moon è la cosa più vicina a una ballata romantica che i Transvision Vamp potessero fare e ancora una volta sembra il ricordo di una carismatica superstar warholiana scomparsa: “Sorella ti ricordi quei giorni? Tutte quelle notti pazze sembrano perse nella nebbia…”.

Tell that girl to shut up è l’unica cover del disco: l’originale era stato cantato dal gruppo pop-punk californiano Holly and The Italians nel 1979 e Wendy James sembra ringhiare con particolare gusto questa revenge song da teenager imbizzarrita: “Dì a quella tipa di chiudere il becco… la vedi, cerca di fare l’intellettuale, fa la musicista e va all’università, e come si muove, è così una sfigata… non la posso reggere”. Ovviamente arriva anche alle minacce fisiche: “Potrei picchiarla, potrei tirarle i capelli”. È davvero difficile immaginare un’artista pop di oggi interessata ad andare in classifica cantare una cosa del genere.

Il pezzo più rivelatore del disco però è Andy Warhol’s dead, un elogio funebre al padre della Pop art. E forse il più sentito perché viene dal cuore di un gruppo che non lo ha mai conosciuto ma che è pienamente cosciente di non essere arte ma di essere un prodotto commerciale. Nel testo vengono nominate le superstar più luminose della Factory, Edie Sedgwick e Candy Darling, e le opere più famose del maestro, le lattine di zuppa e le bottigliette di Coca-Cola, e poi si racconta di un sogno in cui William B (William Borroughs? Chissà!) dice: “No, Andy non è morto, Andy si è solo addormentato”. La canzone finisce con un conteggio da uno a quindici, i famosi quindici minuti di celebrità che chiunque avrebbe avuto secondo Andy Warhol.

I quindici minuti di celebrità dei Transvision Vamp sono stati intensi ma molto veloci: nel 1989 avrebbero visto il loro secondo album, Velveteen, arrivare al numero uno in classifica. E nel 1990, il loro terzo album fu considerato invendibile dalla loro casa discografica e non uscì mai nel Regno Unito. Il gruppo si sciolse subito dopo, sotto un profluvio di commenti negativi e crudeli da parte della stessa stampa che aveva contribuito a lanciarli solo tre anni prima. A Wendy James veniva rinfacciato il fatto di aver usato il sesso per vendere dischi e alla band in generale di essere stata grottesca e derivativa. Tutto vero, ma i Transvision Vamp sono stati l’ultimo grande hype della stampa musicale britannica prima dell’arrivo della scena di Manchester e della cultura rave, e i loro quindici minuti di celebrità li hanno buttati giù come uno shot di vodka liscia, senza pensarci troppo.

Certi tic e certe intuizioni dei Transvision Vamp però sono sopravvissuti negli anni novanta: Generation terrorists, l’album di debutto dei Manic Street Preachers, ha usato tattiche promozionali simili a quelle dei Transvision Vamp e i Manics, sia nelle canzoni sia nelle interviste, si divertivano a buttare qua e là riferimenti decontestualizzati alla controcultura degli anni sessanta e settanta. Anche i primi Garbage, con quella fusione tra fantascienza, synth-pop e rock, pescavano dall’estetica di Wendy James. E poi Kurt Cobain, con la sua passione per gli artisti che si consumavano in una sola fiammata, ha indossato in diverse occasioni (tra cui anche un concerto ripreso da Mtv) una t-shirt degli ormai dimenticati Transvision Vamp.

Transvision Vamp
Pop art
MCA, 1988

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it