30 settembre 2015 16:08

Ai primi di settembre, il parc Maximilien a Bruxelles era già punteggiato di tende colorate. Da una decina di giorni la fila davanti all’Office des étrangers, l’ufficio federale dove si presentano le richieste di asilo, si stava allungando, mentre il limite di domande registrate ogni giorno – duecentocinquanta – rimaneva invariato. Alcuni profughi, dopo aver ricevuto l’invito a ripresentarsi in quello stesso ufficio dopo uno, due, a volte più giorni, avevano deciso di restare a dormire dall’altro lato della strada.

Da allora intorno al parco è nato un movimento di solidarietà ampio e trasversale, fatto di persone che abitualmente a Bruxelles non si incrociano: attivisti sans-papiers e funzionari delle istituzioni europee, richiedenti asilo arrivati da lontano e ragazzini dei quartieri popolari che a malapena conoscono la loro città.

Secondo le autorità belghe i profughi di Baghdad provengono da una città sicura

Il governo federale, formato da una traballante coalizione di liberali, nazionalisti e cristianodemocratici, si è trovato in difficoltà. Invece di aumentare il numero massimo di registrazioni giornaliere, ha temporeggiato, ha proposto delle soluzioni di preaccoglienza che tutto erano fuorché accoglienti, ha messo in mostra le sue divisioni interne e, infine, ha preso di mira i “finti rifugiati” colpevoli di far perdere tempo all’Office des étrangers: si tratta degli iracheni di Baghdad, in particolare i giovani uomini senza famiglia, che si ostinano a lasciare la loro città, considerata sicura dalle autorità belghe.

Per far passare il messaggio, il governo ha cominciato con lo sbattere un po’ di richiedenti asilo iracheni dietro le sbarre del centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Steenokkerzeel, vicino a Bruxelles, dichiarando che si trattava di casi di respingimento in base al regolamento di Dublino (vero solo per alcuni di loro) o di persone che avevano accettato un rimpatrio volontario (un’enormità che si commenta da sola).

Armi di dissuasione

Con il sostegno di altri detenuti, gli iracheni si sono ribellati, hanno cominciato uno sciopero della fame e hanno lanciato un appello, riportato dal collettivo Getting the voice out. In seguito a una visita del Cie, due associazioni, il Mrax (Movimento contro il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia) e la Ligue des droits de l’homme, hanno confermato che nessuno dei detenuti iracheni aveva accettato un rimpatrio volontario. Dieci iracheni sono stati liberati e trasferiti in centri di accoglienza per richiedenti asilo. Nel frattempo, però, alcuni erano già stati espulsi o trasferiti in altri Cie.

Domenica 27 settembre Theo Francken, segretario di stato responsabile per le politiche di asilo e migrazione, ha annunciato di aver comprato degli spazi pubblicitari su Facebook per dissuadere gli iracheni dal venire in Belgio. “Credevo che Facebook servisse a farsi degli amici, invece serve anche a respingerli”, ha commentato l’umorista Alex Vizorek, suggerendo a Francken un’altra temibile arma di dissuasione: i film dei fratelli Dardenne.

Quella stessa domenica la Plateforme citoyenne de soutien aux réfugiés, nata per coordinare il campo nel parc Maximilien insieme ad associazioni e collettivi, è riuscita a portare oltre ventimila persone per le strade di Bruxelles. Lo spezzone più festoso e rumoroso era quello della Coordination des sans-papiers de Bruxelles, che riunisce sette collettivi ed è attiva da oltre un anno.

In un recente video, la Coordination ricorda che “i rifugiati di ieri sono i sans-papiers di oggi”. Alla fine della manifestazione, il loro intervento dal palco, insieme a quelli di altri attivisti, ha confermato che il messaggio della giornata si spingeva oltre il semplice “Refugees welcome”.

O forse è più giusto dire che lo slogan in cui si riconoscono tanti movimenti nati negli ultimi mesi è meno semplice di quanto appaia, poiché entrambi i termini sono problematici.

Il richiedente asilo respinto non è più nulla, deve accettare il rimpatrio o svanire nella clandestinità

“Rifugiati”: anche a volerlo usare con la precisione del giurista (rifugiato è chi ottiene lo status definito nella convenzione di Ginevra del 1951 in seguito all’esame della propria richiesta di asilo) e ammettendo la sua funzione “etichettante”(per riprendere il titolo di un noto articolo di Roger Zetter uscito nel 1991), è diventato un termine che discrimina, spesso in modo arbitrario. “Nessun progetto migratorio è illegittimo”, sottolinea il politologo belga François Gemenne, “e voler distinguere i migranti ‘buoni’ da quelli ‘cattivi’, l’immigrazione ‘scelta’ da quella ‘subita’ è insopportabile”.

La marcia Refugees welcome a Bruxelles, il 27 settembre 2015. (Francesca Spinelli)

Senza alternativa

Se lo status di rifugiato servisse a offrire assistenza a chi ne ha bisogno nel momento in cui arriva in un paese nuovo, mentre ad altre persone fosse lasciata la possibilità di inserirsi liberamente e legalmente in quello stesso paese, il termine “rifugiato” non porrebbe problema. Oggi invece è usato per distinguere chi esiste da chi, agli occhi di uno stato, non esiste. Il richiedente asilo respinto, o rifugiato mancato, non è più nulla. Deve accettare di essere rimpatriato o svanire nella clandestinità.

E poiché l’Unione europea non offre molte altre vie di accesso legali, la richiesta di asilo è diventata un modo per giustificare il proprio arrivo o la propria presenza sul territorio europeo. I “finti richiedenti asilo” esistono, certo: hanno forse un’alternativa?

Che scelta aveva Abdel, marocchino e senza documenti, arrestato all’alba in casa, nel corso di una retata nel suo quartiere, rinchiuso nel Cie 127bis e minacciato di espulsione, mentre la compagna faceva i salti mortali per tirarlo fuori?

Ha chiesto l’asilo per evitare l’espulsione, per guadagnare tempo, per esistere ancora un po’ agli occhi dello stato belga, e così facendo, grazie all’impegno di una rete di amici e contatti, ha potuto ritrovare la libertà. I “finti richiedenti asilo” non esisterebbero se i governi europei non avessero creato le circostanze che li hanno resi inevitabili, proprio come è successo con i trafficanti di migranti.

Quando si parla di migrazioni e di asilo, bisognerebbe prestare più ascolto agli storici. Per esempio a Katy Long, di cui non mi stanco di segnalare questo articolo, e a Karen Akoka, che ricorda come all’epoca dell’elaborazione della convenzione di Ginevra si affrontarono due concezioni del rifugiato: quella occidentale, “ereditata dall’illuminismo, che promuoveva l’ordine liberale e democratico e trascurava le ingiustizie socioeconomiche”; e quella degli stati socialisti, che doveva “permettere di proteggere i diritti economici e sociali dei cittadini, come l’accesso all’impiego, all’alloggio, alle cure e all’alimentazione”.

“Se la concezione degli stati socialisti avesse prevalso”, scrive la ricercatrice, “la categoria legittima del ‘rifugiato della fame’ si sarebbe imposta davanti a quella illegittima del ‘migrante politico’”. Akoka ha inoltre mostrato come, almeno in Francia, le autorità concedessero lo status di rifugiato a persone che non erano dissidenti politici pur di rafforzare l’immagine oppressiva del regime sovietico.

L’Ungheria applica senza fronzoli valori europei di chiusura e paranoia condivisi dagli stati membri

Oggi la concezione occidentale e per niente neutra del rifugiato come perseguitato è in crisi. Da più parti si chiede di estendere la protezione garantita da questo status.

Pochi giorni fa la Nuova Zelanda ha espulso Ioane Teitiota, originario dell’arcipelago di Kiribati, la prima persona al mondo ad aver presentato, senza successo, una richiesta di asilo climatico. Saranno rimpatriati anche la moglie, con cui si era trasferito in Nuova Zelanda nel 2007, e i tre figli avuti in quella che pensavano fosse diventata la loro nuova casa.

Anche se la richiesta di Teitoia è stata respinta, la riflessione sui “profughi ambientali” è avviata da anni, e non è l’unica a scuotere la convezione di Ginevra. In un recente articolo Vijay Prashad, docente di studi internazionali al Trinity college, in Connecticut, si sofferma per esempio sul rapporto tra le politiche commerciali ed estere occidentali e l’aumento dei profughi legati “ai cambi di regime” e alle “riforme” del Fondo monetario internazionale.

Domenica scorsa la manifestazione organizzata dalla Plateforme citoyenne de soutien aux réfugiés si è conclusa in un altro parco, il Cinquantenaire, in un coro di “Welcome”. Mi è tornata in mente una poesia di Renée Liang, un’autrice neozelandese di origine cinese. Intitolata Visas, si apre su questi versi: “You’re so welcome stranger / welcome to clean green NZ our home”. Alla fine il “welcome” sparisce, lasciandosi dietro il cuore crudo del messaggio: l’ingiunzione “you’re to clean”.

Pulirsi la coscienza

Non è un caso se lo slogan “Refugees welcome” è stato adottato da realtà opposte come, per fare solo due esempi, la cancelliera tedesca Angela Merkel e la rete di collettivi canadesi No one is illegal.

Per Merkel, come per molti leader europei, pronunciare parole di pietà per i siriani è un’ottima occasione di pulirsi la coscienza. Intanto continuano a tenere siriani, iracheni ed eritrei (per riprendere le tre nazionalità coperte dall’accordo sulle quote di ricollocamento) quanto più possibile alla larga dalla frontiere esterne dell’Ue e a puntellare la fortezza Europa e il regolamento Dublino, che pure fanno acqua da tutte le parti.

L’unica vera crisi in corso è quella di un insieme di politiche europee, armonizzate fin dove lo consentono i vari egoismi nazionali, che riesce sempre meno a tenere nell’ombra i volti e le voci delle sue vittime. E la presunta spaccatura tra gli stati membri riguarda la forma, non la sostanza. L’Ungheria non fa che applicare senza fronzoli né ipocrisie i valori europei di chiusura e paranoia condivisi da tutti gli stati membri.

Gli attivisti di No one is illegal hanno lanciato la campagna “Refugees welcome” dopo la morte di Alan Kurdi. Sul sito della campagna spiegano di difendere “l’intrinseco diritto umano di rimanere, la libertà di muoversi e il diritto di ritornare”, alludendo con queste ultime parole alle lotte dei popoli indigeni canadesi cacciati dalle loro terre.

Come altri collettivi negli Stati Uniti e in Europa, No one is illegal si definisce anticolonialista ed è formato da persone di origine immigrata o provenienti da contesti razzializzati. Per loro, la mobilitazione a favore dei siriani è solo un’ulteriore espressione dell’impegno contro le politiche d’immigrazione canadesi, in particolare quelle che il governo conservatore di Stephen Harper ha difeso negli ultimi nove anni, e che potrebbe continuare a portare avanti in caso di vittoria alle elezioni federali del prossimo 19 ottobre.

Intanto, a Bruxelles, la Plateforme citoyenne de soutien aux réfugiés ha annunciato che questa settimana si ritirerà dal parc Maximilien per non “servire da alibi al governo”. “Se restiamo qui”, si legge nel comunicato, “le autorità federali non si prenderanno le loro responsabilità”. Tuttavia, la piattaforma continuerà a coordinare l’accoglienza dei futuri richiedenti asilo presso dei cittadini di Bruxelles e aprirà uno spazio diurno di incontro e di attività per i rifugiati.

La sfida della Plateforme, di No one is illegal e di altri movimenti è questa: inscrivere nel tempo e in una dinamica politica i moti di solidarietà nati un po’ ovunque, senza smettere di monitorare e denunciare le manovre di governi e istituzioni, e senza lasciarsi incastrare in schemi e lessici tanto disonesti quanto pericolosi. Questi ultimi due punti valgono anche – soprattutto – per i giornalisti, che spesso, in modo più o meno inconsapevole, si adeguano alle priorità dei governi, adottandone il linguaggio e sposandone i ragionamenti.

Domenica 4 ottobre, al festival di Internazionale a Ferrara, tre incontri saranno dedicati al rapporto tra informazione e migrazioni: “Come parlare di migrazioni sui giornali” alle 14.00, “Il volto umano delle migrazioni” alle 14.30 e “Dietro uno scatto” alle 15.00. Gli altri incontri sui temi delle migrazioni e dell’asilo sono elencati qui.

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