09 dicembre 2016 19:00

Quella raccontata dal canadese Xavier Dolan è una storia di grande dolcezza, circolare, avvolgente, di derivazione proustiana. Una dolcezza di tono restituita per intero dalle scelte di regia che creano una dimensione intima, e dalla recitazione di Gaspard Ulliel, timida e ritratta, oltre che dall’uso della sua voce fuori campo: quasi un flusso della coscienza bisbigliato, sussurrato, un flusso della coscienza come quelli degli ultimi istanti di una consapevolezza di morte. Eppure questo film è un inno alla bellezza della vita, a quello che si lascia prima di entrare nell’ombra, lasciando così dietro di sé un senso di serenità, di pace, di poesia.

“Dopo dodici anni di assenza, ho paura di tornare, di rivederli”, dice il protagonista, Louis, drammaturgo di successo. Questa paura si dichiarerà altre volte nel film. Tratto da una pièce del 1990 di Jean-Luc Lagarce, a sua volta drammaturgo francese di successo morto di aids nel 1995, a cui il film è dedicato, È solo la fine del mondo (gran premio della giuria a Cannes) è anche un ritorno sui luoghi della paura di ieri, l’aids, per meglio parlare di quelli delle paure odierne (altre malattie, come il cancro), ma anche di quel sentimento di paura verso tutto che oggi ci pervade, e che ritroviamo nella dichiarazione del regista al momento della presentazione del film a Cannes.

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“Fare questo viaggio per preannunciare la mia morte, per annunciarla io stesso e dare a me e agli altri, per l’ultima volta, l’illusione di essere, ora che arriva la fine, di essere padrone di me stesso”, dice ancora il protagonista a se stesso, e quindi allo spettatore, in una sequenza in aereo ovattata e potenzialmente irreale. La camera gli è attaccata al volto, filmato di profilo o di tre quarti, enunciato formale dell’intero film. Dunque l’essere e la fine, o meglio, l’estremità. Come comportarsi con la propria famiglia, cioè con chi è alle origini della storia di un essere umano, quando si è consapevoli di essere giunti all’altra estremità della vita, a quell’estremità che appartiene a tutti noi? Come riuscire a dirlo ai propri cari che non si vedono da dodici anni? La dismisura proustiana nella ricerca del tempo perduto è rovesciata in una microapocalisse, in un dramma da camera di meno di due ore. Ma è l’apocalisse del mondo che metaforicamente è rappresentato dalla fine del proprio sé: tutto ruota intorno a Louis eppure tutto si blocca, tutto si disfa.

Un percorso dolce e crudele insieme che si rivela un vicolo cieco e che si sovrappone al vicolo cieco della vita

Nel suo viaggio verso la destinazione finale Louis ha intenzione di ritrovare e riportare con sé tutta la bellezza del sentimento della vita. Il suo è infatti un percorso dolce e crudele insieme che si rivela un vicolo cieco e che si sovrappone al vicolo cieco della vita. Se il tema trattato è grave, nessun luogo come un ambiente ristretto rende evidente l’ampiezza dell’estremità. Louis è prigioniero della propria angoscia, in questo micromondo quasi sempre filmato in penombra o in controluce. Eppure il microcosmo familiare, tutto di donne tranne il fratello maggiore, come detto gira per intero intorno a Louis.

Discussioni, sentimenti, litigi, pianti, tutto ruota intorno a Louis, quasi una divinità, un eroe antico che torna per l’ultima volta ma trova tutto mutato, ma al tempo stesso il bell’eroe è già nell’Ade. Come Ulisse da un lato, come Achille dall’altro. Difficilissimo il rapporto, nevroticamente, follemente, conflittuale con il fratello maggiore Antoine (Vincent Cassel), complicato ma invece sempre pieno di sentimenti delicati quello con la madre (Nathalie Baye), la sorella (Léa Seydoux), e con Susanne (Marion Cotillard) la moglie di Antoine, conosciuta in quest’occasione. Louis è ritratto, distante e partecipe a seconda dei momenti, e la dolcezza del volto di Ulliel, ex fotomodello già visto come attore protagonista nello splendido Saint Laurent di Bertrand Bonello (inedito in Italia), è certamente il più perfetto di tutti in mezzo a queste recitazioni perfette: domina senza dominare, assorbendo tutti i colpi quasi in silenzio, come un piccolo Cristo in una piccola via Crucis. Fondamentale anche il suo parlare, e consigliamo caldamente la visione del film in lingua originale.

Della spazialità potenziale della vita qui non c’è quasi traccia, nemmeno del tentativo del giovane protagonista di Mommy (2014), precedente capolavoro del regista, dove almeno si tentava di allargare il quadro del formato cinematografico facendolo equivalere a quadro dell’orizzonte, in una sequenza semplice quanto unica in tutta la storia del cinema. Salvo una sequenza in auto, un motoscafo sfreccia lungo il fiume nella natura verde, e volti, sguardi maschili ambiguamente s’incrociano, suggerendo, come poi in momenti successivi, l’identità di Louis. Ma Louis è ormai distante da tutto. Poi ancora una sequenza in auto con il fratello, dove girano senza girare, così come parlano senza parlarsi, altro vicolo cieco.

L’arte dei volti
È solo la fine del mondo è un film a tratti quasi senza suono, atonale, o composto da immagini quasi fotografiche, estatiche, immobili, congelate. Se il cinema, rispetto al teatro, è arte dei volti, questo è un film paradigmatico. E rivela una delle sequenze più belle viste al cinema quest’anno. Con in sottofondo una musica di archi, Susanne guarda Louis con immensa dolcezza, lui china la testa, poi lei la rialza: emerge uno sguardo d’immensa tristezza, e lei capisce. Un minuetto in verità fatto di sfumature, rispetto a quanto scriviamo, di momenti e movimenti delicati. Tutto è negli sguardi, nei volti.

La musica in questo film sottolinea in maniera lirica i momenti di distanza dal tutto della vita per meglio ravvicinarla: è questo a farne, malgrado le apparenze, un film natalizio. Se è vero che gli artisti non sempre forniscono antidoti espliciti a quanto registrano auscultando il mondo, è vero anche che riescono a farlo malgrado loro, suggerendo nelle loro opere quegli elementi del mondo circostante che sono da isolare per meglio osservarli e trovare da noi le soluzioni. Quando Louis accarezza con dolce sensualità gli oggetti nella sua cameretta, ormai un museo in penombra di vestigia di una vita che fu, parte un flashback di un amore che fu. Si è impossibilitati a dire l’essenziale, a esplicitarlo: “Non diciamo nulla d’importante, parliamo soltanto”. Eppure, come abbiamo visto, l’essenziale è comunque detto. “Rimpiango il tempo perduto, che abbiamo perduto, che ho perduto”, dice in un dato momento Louis. Il film è tutto lì, la vita è tutta lì.

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