25 gennaio 2017 14:41

Arriva in sala l’attesissimo film di Damian Chazelle, un musical adatto anche a chi non ama il musical, film d’apertura del festival di Venezia che ha valso alla sua attrice protagonista la Coppa Volpi come miglior attrice protagonista, e ora candidato a 14 premi Oscar. Un film non perfetto ma sostanzialmente autentico, coinvolgente e trascinante.

Chissà perché nessuno aveva mai pensato a un titolo come La la land, geniale, semplice e leggero. In quest’era grave e spesso perduta nella ricerca della (sciocca) leggerezza del riflusso postmoderno anni ottanta, il musical del trentaduenne Damien Chazelle, al suo terzo lungometraggio, cerca di rivitalizzare una vecchia tradizione (la leggerezza della modernità, precedente al vuoto postmoderno) e in parte ci riesce davvero felicemente. Ma il titolo non dice solo che siamo nel mondo di un motivetto musicale, sempre sulla china dello scivolamento nel fatuo e nel vacuo. Più sottilmente (e quindi un po’ più profondamente), ci dice anche che siamo a L.A., a Los Angeles, e Hollywood (e quindi il musical) abitano da quelle parti.

La la land è girato in gran parte in luoghi reali, come accadeva nel magnifico musical di Robert Wise West side story (1961), e la città è la vera protagonista (sognata) del film, nella sua instabilità dolce, ma priva della nevrosi da videoclip o da spot del cinema postmoderno, pur essendo in gran parte fondato sulla velocità di regia e montaggio. I colori non sono saturi e zuccherosi fino all’overdose, pur essendo vivaci. A volte la fotografia è piuttosto naturalistica e il colore è dato dal movimento dei corpi, dalla coreografia, dai costumi. Come una volta. E come nella meravigliosa scena iniziale di La la land, nell’ingorgo sulle autostrade di Los Angeles.

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Se Los Angeles è la protagonista, il tema del film è l’instabilità, lo scivolare continuo tra il desiderio di riuscita, di successo, e l’anelito alla fedeltà al sentimento autentico, alla bellezza interiore, alla purezza della propria espressione artistica. E in questa instabilità s’insinua continuamente l’inquietudine, l’angoscia, forse l’orrore, latente nella rappresentazione di questo mondo, distante dal vero mondo ma, paradossalmente, tanto desiderato e ammirato. Concetto ripetuto discretamente ma continuamente nelle immagini, nelle sequenze, nei dialoghi. Soprattuto nelle sequenze notturne dove i personaggi sono in solitudine e dove magari emerge solo una musica da carillon. Ma ripetuto anche in un’inquadratura quasi da cinemascope, dove si dà tutta l’evidenza a un manifesto rettangolare gigante che rappresenta un immaginario esotico da paccottiglia.

C’è comunque qualcosa di sottilmente triste, malinconico e laconico subito dietro la patina. Spurgato dai fronzoli estetici del kitch colorato, artificiale quanto certa allegria da party, il film rivela quello che vuole esprimere, anche se con modi piacevoli: la tristezza, il nero, il vuoto, la banalità della vita e di certa fredda e disadorna architettura metropolitana, spesso celata da una scenografia fondata appunto su facili effetti colorati.

Si dice di desiderare di fare ancora la storia come all’epoca quando si ricercava ancora la grandezza, quasi l’irraggiungibilità al limite del metafisico, come era un tempo per gran parte delle star del cinema di Hollywood, un mondo di divi venerati come divinità. “Venerano tutto, ma non danno importanza a niente”, è la precisa battuta a un certo momento. L’orrore latente. Non siamo però nel capolavoro Mulholland drive di David Lynch, film matrice di questo riposizionamento su Los Angeles di Hollywood, l’antica Mecca del cinema. Non c’è infatti il mistero o l’inquietudine prossima alla metafisica tipica del film noir (sia classico che trasfigurato, come nel caso di Lynch).

Evanescente e persistente
Emma Stone e Ryan Gosling, le due star e in pratica gli unici personaggi del film, sono molto bravi (Gosling, del resto, oltre che attore è anche musicista, e buon conoscitore sia del musical sia della storia del cinema), essenziali nel restituire qualcosa di questo evanescente quanto onirico cinema del passato. Così evanescente, eppure così persistente. Se è vero che si pensa a tutto il musical degli anni cinquanta, il già citato West side story, ma anche Un americano a Parigi di Vincent Minnelli (1951), o Cantando sotto la pioggia (1952) di Stanley Donen, o ancora È nata una stella (1954) di George Cukor (al quale il film rimanda anche per la sua regia, parziale, di Via col Vento, ma pure al Casablanca di Curtiz). Si può anche pensare, risalendo la cronologia del musical, alla coppia perfetta, davvero quasi divina, di Fred Astaire e Ginger Rogers o ai tanti film di Busby Berkeley.

Berkeley fu regista e coreografo di tanti musical degli anni trenta e quaranta, geniale per come unì regia e arte del montaggio con la coreografia teatrale e per come da questa unione fece nascere qualcosa di nuovo e diverso: le geometrie perfette, la capacità di astrarre sottraendo (perfino attori importanti) e di amplificare un dettaglio fino a realizzare dei film visivamente astratti e mai ovvi, sperimentali quanto espressione di un’interiorità, o se preferite dell’inconscio, facendo insomma pienamente avanguardia cinematografica (e potremmo dire anche in dialogo con certe avanguardie) per mezzo del cavallo di Troia del musical e dell’intrattenimento.

Chazelle, americano di origini francesi (dal lato paterno), proveniente dal cinema indipendente, è un regista che vede infatti la storia del musical come uno dei terreni di sperimentazione cinematografica più fecondi e alti offerti da Hollywood. Questo ovviamente non solo grazie a Berkeley, perché tendenze all’astrazione si possono trovare in tanti musical successivi, come Un Americano a Parigi. Altrettanto figlio della cinefilia che trova proprio in Francia una patria agguerrita, Chazelle rimanda prepotentemente a un altro regista come il francese Jacques Demy, ai suoi splendidi film degli anni sessanta come Les demoiselles de Rochefort (1967, da noi noto come Josephine) e il capolavoro Les parapluies de Cherbourg (1964). La la land è sul crinale tra la gioiosità invasiva del primo e la nera malinconia pervasiva del secondo, due film paradigmatici dell’anima duale di questa pellicola, che riassumono la dualità insita nell’intera storia del musical. Per Chazelle tutto deve produrre senso, interesse verso la memoria, perché quest’ultima è generatrice di creatività nella sua purezza: come il numero di ballo con Gosling e Stone sulle colline sopra Los Angeles che incanta per la sua purezza ritrovata.

Il cinema di Chazelle lascia sperare un altro tipo di cinema, per il grande pubblico come per gli autori

Meno riuscita la scena all’Osservatorio che rimanda a James Dean e Natalie Wood di Gioventù bruciata (1955): una scena clou che però si affloscia un po’ come un soufflé riuscito male. Tolta questa eccezione, tutto il film esprime comunque una grande voglia, anzi qualcosa di più alto, di ritrovare la grande profondità nella leggerezza e semplicità (apparente) propria del cinema del passato. A Chazelle va dato il tempo di crescere ulteriormente, di secernere il meglio di quanto fatto finora, perché il congelamento plastificato nel vintage (altra variazione) rischia di togliere profondità e forza alla sua arte. Il regista è sul crinale, come il suo film, e dovrà sapersi muovere per trovare l’equilibrio giusto nel fare quel cinema sia popolare sia d’autore a cui aspira.

Anche se letteralmente tappezzato di locandine di film storici, più che di citazioni in accumulo tipiche del postmoderno stanco, quello di Chazelle è più un cinema di echi e rimandi che nel bene e nel male si sciolgono e dissolvono di bolla in bolla, e che trascina, coinvolge e lascia sperare e sognare un altro tipo di cinema, per il grande pubblico come per gli autori. Perché ha la sua profondità. L’inizio è corale, ma poi si rivela, senza darne troppo l’aria, come un film sulla solitudine di oggi. Su quanto siamo soli: viene in mente con forza quel gran film dimenticato, esplicitamente sperimentale, Un sogno lungo un giorno (1982) di Francis Ford Coppola, davvero troppo dimenticato.

Perché la cosa più bella del film è questo. La sequenza iniziale sulla highway è l’esatto rovescio di quel che sarà poi La la land, come anche l’esatto contrario di gran parte dei musical, tendenzialmente fondati su duetti inseriti in una coralità. La sua bellezza più vera e più importante, quel che non ne fa una bolla da tardi anni ottanta, è in parte costituita dal suo essere un film di solitudine. Sta qui, insieme alla sua eresia di essere falsamente citazionista e postmoderno, la profondità e la particolarità di questo bel film realizzato da un giovane talento da seguire con attenzione nel proseguimento del suo sogno.

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