23 marzo 2017 18:16

È davvero bello l’ultimo lungometraggio dell’olandese Paul Verhoeven. Un grande film che gioca finemente con la grossolanità, ma diventa grave di fronte al vero orrore. Questo regista geniale potrebbe essere definito un olandese, se non volante, quantomeno itinerante perché dopo gli esordi nei Paesi Bassi ha poi proseguito negli Stati Uniti con Atto di forza (1990) o Basic instinct (1992), approdando infine a coproduzioni europee e ora francesi, restando sempre però fedele a se stesso. Elle, in concorso all’ultimo festival di Cannes, è praticamente la quintessenza di questa fedeltà all’esplorazione delle proprie tematiche, delle proprie ossessioni.

La sessualità, le sue perversioni (accennate o esplicite), il sadomasochismo, l’omosessualità o la bisessualità, la religione, l’amore e forse la repulsione per tutte queste cose. Tutti elementi che ritroviamo in Elle, adattamento del romanzo Oh… dello scrittore francese di origini armene Philippe Djian, titolo che riecheggia quello di Histoire d’O.

Ma il titolo francese, mantenuto in italiano, riecheggia a sua volta She, il romanzo avventuroso e fantastico insieme di Henry Rider Haggard, paradigma della donna fantomatica. Dopo che tutte le dive di Hollywood contattate hanno rifiutato il ruolo della protagonista, si è deciso di fare un film del tutto francese. Ambientato in Francia come il libro, francesi il produttore (Saïd Ben Saïd) e l’attrice protagonista, un’icona del cinema transalpino come Isabelle Huppert.

I fantasmi di Michelle
Cosa ci racconta allora questa lei francese, una lei dominatrice a suo modo fantomatica (con un nome preciso, però: Michelle)? Al tempo stesso fisica e mentale, posseduta da fantasmi e capace di possederli a sua volta. Perché in fondo Michelle, che sarà fatale agli uomini, non è la classica femme fatale. Una donna che si gingilla con i fantasmi femminili ma che finisce per dominare, per fagocitare quelli maschili. Questo il vero tema di cui tratta il film, realizzato da un uomo, come il libro da cui è tratto. Il masochismo femminile esiste, ma in fondo è anche un fantasma del desiderio maschile. Elle è tra le due sponde e le domina. Elle è bisessuale quanto bifronte.

Paul Verhoeven è un regista che ha spesso giocato sopra le righe, con il trash, con l’ironia che sconfina nell’autoparodia

Perciò niente di meglio di un fantasma, o meglio di un Fantomas, di un Diabolik, per cominciare il film. Elle inizia nel nero, con un maestoso gatto nero, nell’oscurità di una violenza diurna. Prosegue con rimandi a Hitchcock, di cui il regista è gran cultore. Ma se i concetti, i leit motiv, gli archetipi-prototipi del cinema hitchcokiano sono profondi nella creazione dei risvolti di questo ritratto di donna apparentemente algida (ovviamente Isabelle Huppert è perfetta per incarnarla), mentre in realtà è semplicemente un mostro (più o meno) sereno, un personaggio astratto e concreto insieme, la rievocazione di Hitchcock è anche un gioco, un giochetto a tratti.

Paul Verhoeven è un regista che, in maniera più o meno marcata a seconda dei casi, ha spesso giocato sopra le righe, con il trash, con l’ironia che sconfina nell’auto-parodia, ma consapevole e gestita per dire qualcosa di profondo, inatteso, audace. Anche in film come Starship troopers (1997), o in Black book (2006), che può quasi far pensare alle Sturmtruppen delle strip di Bonvi che si prendono sul serio. Il punto è proprio questo. Il film si muove in costante equilibrio tra il ridicolo e il grave, la tragedia e il simulacro (postmoderno), equilibrio magistralmente mantenuto dall’inizio alla fine.

Una clip del film


Il personaggio del padre, serial killer di massa per esplosione dell’impulso omicida, metaforizza, tra le altre cose, che la labilità del confine tra la cronaca più nera che supera l’immaginazione e l’horror di serie b. La madre con i suoi amanti sembra quasi uscita dalla tradizione del teatro del Grand Guignol. O per andare meno lontano, da un film di Pedro Almodóvar. “Ma come fai a essere così grottesca?”, le chiede la protagonista nel corso del cenone natalizio.

Il regista, questa la sua unicità, lavora con finezza sul grottesco, sul sopra le righe, sull’eccesso. “Un’idea di gioco a partire da foto di delitti, ma che poi è un po’ degenerata”, dice a un dato momento un altro dei personaggi, sintetizzando così tutte le dinamiche all’interno di Elle: tutte situazioni (esplosioni) che vanno in vacca, ma da cui il personaggio della Huppert esce sempre sulle proprie gambe.

Borghesia risibile
A forza di giocare con i delitti si può perdere il senso della gravità, di cosa comporti infierire su dei corpi, fisicamente o psicologicamente. Si può arrivare a dimenticare che comunque questa donna ha subìto, per la seconda volta nella sua vita, una ferita da colpo d’ascia che non si rimarginerà più.

Per lo spettatore resta a lungo difficile decidere chi sia Elle, forse anche dopo la fine del film. Quanto è risibile invece, prima ancora che degenerata, la borghesia francese nel film, così tanto raccontata da così tanti film francesi. Forse degenerata a tal punto da divenire risibile. Elle, opera non morale o immorale ma piuttosto amorale, lascia allo spettatore la possibilità di esprimere un giudizio secondo la propria moralità, paradossalmente più di altre opere. Allo specchio con noi stessi, in piena coerenza con un film inquadrato e incorniciato da finestre, porte, televisori. Sono risibili i personaggi del film o siamo risibili noi? È chiaramente un mondo di arte in fallimento, di letterati disoccupati che si riciclano nella vacuità del videogioco oggi imperante, dominatore, dittatoriale.

Pensando alla filmografia di Verhoeven, non è affatto sicuro che il film voglia essere così esplicitamente un atto d’accusa al dominio del videogioco, sull’incoscienza ludica verso sangue e corpi trafitti (il gioco che parte da foto di delitti), anche se in parte lo è certamente. Ma è altrettanto chiaro che nulla meglio della sequenza del videogioco, quando alla fine è mostrata nella sua interezza, evidenzia, in maniera intensa e rivelatrice, la magnificenza con cui Lei, She, Elle, versione mantide, questa Sharon Stone versione francese, rovescia sugli uomini i loro fantasmi totalitari, proiezioni psichiche dei loro basic instinct.

Il basso illumina l’alto
Del resto, piccola annotazione, il videogioco in questione è un estratto dell’adattamento video della trilogia a fumetti di Salammbô, a sua volta adattamento del capolavoro di Gustave Flaubert, realizzata da un maestro del fumetto d’autore, il francese Philippe Druillet. Ancora una volta, anche andando a guardare negli interstizi del film, il basso illumina l’alto, entrambi inscindibili. Gesù camminava nel basso e proprio su Gesù Verhoeven è impaziente di realizzare un lungometraggio. E la bassezza o banalità di tante situazioni nel film trova il suo rovescio speculare, apparente o meno, con frequenti apparizioni del papa in televisione.

Il cinema è sguardo: il film comincia con gli occhi del gatto nero

“Siamo tutti psicotici”, ha dichiarato il regista in una lunga intervista ai Cahiers du Cinéma.

Il personaggio della Huppert, che, impassibile, posteggiando può distruggere all’improvviso l’auto dell’ex marito con il quale sta per andare a cena, come in un raptus di lucida follia, è quasi il rovescio di certo cinema surrealista di Luis Buñuel, dove vediamo materializzarsi, al confine con il reale, i fantasmi repressi: qui è spesso difficile cogliere la differenza tra il fantasma represso del passaggio all’atto rappresentato in chiave metaforica, nel suo senso psicanalitico, e la sua piena immissione nel reale. Il cinema è sguardo: il film comincia con gli occhi del gatto nero. Vale a dire Michelle ma anche l’oscurità insita in ognuno.

Il personaggio della Huppert, sul cui sguardo il film è imperniato, è infatti l’assassino della normalità, ovvero noi tutti, che nel quotidiano sembra mantenere la lucidità per non precipitare nella psicosi evidente di coloro che poi i mezzi di comunicazione, e tutta la società, definiranno come mostri. Ma lei è il vero mostro. Lei uccide tutti. Essendo però il film intimamente bifronte, Elle, appunto personaggio fisico e astratto insieme, è anche la personificazione della fredda vendetta dell’angelo sterminatore contro quegli uomini portatori sani di violenza immorale. In coerenza con il film, la vendetta come passaggio all’atto amorale (o forse, instillando il dubbio, morale?).

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